Su «sprecopoli» anche Fassino faccia il mea culpa

Pietro Mancini

Nella lunga epoca della sua amministrazione, il sindaco Leoluca Orlando non aveva scontentato proprio nessuno dei portaborse che sostenevano la «primavera palermitana»: 74 consulenti, tra cui quelli ai rapporti della città con lo Zaire e con la Sierra Leone. Allora, i ds, a Palermo e a Roma, non insorsero contro il sindaco, teorico del «sospetto come anticamera della verità». Adesso, invece, Fassino e i dirigenti della Quercia tuonano contro «regionopoli». Ma, con il siluro lanciato da Bassolino, i capi post-comunisti spingono Mastella a sospettare l'esistenza, dietro alle accuse lanciate contro Marrazzo, Vendola e Loiero, di una trama politica interna ai ds. E il sanguigno leader dell’Udeur non ha tutti i torti quando diffida dei Robespierre dell'Unione, ammonendo che non si fa politica, brandendo l'arma della questione morale. Forse, anche a Mastella gli anatemi dei soliti Sylos Labini hanno fatto tornare alla mente la vicenda del grande inquisitore di Francia, accusatore implacabile di Madame Bovary. Di costui, rigido fustigatore dei costumi, si scoprì, una volta passato a miglior vita, che era autore di versi licenziosi e pornografici.
Intendiamoci, non si può dar torto a Chiti quando prende di petto Agazio Loiero, il governatore della Calabria, intimandogli lo stop agli sprechi più clamorosi e sollecitando una svolta radicale. In un momento di crisi economica e di sacrifici, chiesti ai cittadini, i governatori devono porre un freno ai casi di malcostume.
Ma si commetterebbe un grave errore, qualora la stampa e la politica si limitassero ad accendere i riflettori unicamente sulla proliferazione delle commissioni e delle auto blu, oltre che sulle trasferte degli assessori all'isola di Mauritius. I fenomeni di malcostume potranno essere contenuti grazie alle denunce e alle campagne dei giornali, ma non verranno, definitivamente, eliminati, qualora gli esponenti più onesti e più coraggiosi dei partiti non si decideranno a bloccare, intraprendendo una dura battaglia politica, il tentativo delle classi dirigenti locali. Che, ormai, non contrastati dai vertici nazionali, hanno rinunciato ai grandi progetti e mirano, esclusivamente, ad aumentare il potere, cercando di auto-perpetuarsi, distribuendo a piene mani presidenze, consulenze e prebende varie ad amici, compari e clienti.
Quando Fassino e Chiti raccomandano ai presidenti e agli assessori diessini - che oggi governano 16 regioni su 20, 74 province su 108 e 5mila comuni su 8mila - serietà e rigore morale, meditino su questi impietosi giudizi, che Enrico Berlinguer esternò più di 20 anni fa: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela, non sono più formazioni, che promuovono iniziative civili e culturali. Sono, piuttosto, federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e un sotto-boss».
E, oltre a bacchettare i governatori spendaccioni, i leader spieghino perché i segretari, che dopo Berlinguer si sono avvicendati alla guida del Pci, poi Pds, infine Ds, non hanno mosso un dito affinché i partiti, a cominciare dal loro, tornassero a perseguire il bene comune e a corrispondere alle esigenze della gente.

Senza una forte e coerente assunzione di responsabilità, politica prima che amministrativa, appare troppo facile, e comodo, alzarsi, come fa, solo oggi, Occhetto e attaccare gli ex compagni, sostenendo che ormai a sinistra il bubbone della questione morale è scoppiato e che i partiti - compreso quello che il prode Achille ha diretto per anni, dopo la svolta della Bolognina - sono diventati dei comitati di affari, peggio dei tempi di Tangentopoli.

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