Controcultura

La sua leggerezza non resiste al peso del tempo

Aveva metodo e tecnica. Ma la sua opera appare ideologica e datata

La sua leggerezza non resiste al peso del tempo

Questo 2023 celebra i cent'anni di due scrittori (e di due destini) che più opposti di così non si potrebbe immaginare: Giovanni Testori e Italo Calvino. E come per Dante e Petrarca, per Leonardo e Michelangelo, per Dostoevskij e Tolstoj, la storia è sempre la stessa: si possono amare entrambi, ma parteggiare solo (al massimo) per uno dei due. Io per esempio sto con Dante, con Leonardo e con Tolstoj, e questo non mi impedisce di amare profondamente i loro rivali. E sto - sono stato, fui, starò - con Giovanni Testori.

Ma si sa che, come recita un aneddoto su Proust e Joyce, gli scrittori tra loro parlano su come cuocere le zucchine o su come fare il nodo alla cravatta. E allora quante cose abbiamo, ho ricevuto da Italo Calvino, noi che non lo preferivamo! Lasciamo stare le mitologie scolastiche, gli antologisti e i prof che ne fecero per noiosi decenni «lo» scrittore per eccellenza. La scuola ha bisogno di titoli, di temi, di contenuti riassumibili in un tema, in un'interrogazione, perciò Leopardi sì e Foscolo no, Pirandello sì e Gadda no. E Calvino era una miniera di tutto, non scappava mai a nessun metodo di analisi, si offriva sempre, poggiava sempre la testa sul ceppo.

E lasciamo stare soprattutto le Lezioni americane di cui si cita sempre una sola parola, «leggerezza», temo senza aver letto il saggio relativo e spesso confondendo un risultato estremo (che richiede sangue sudore e lacrime) con un precetto per giovani scrittori: ragazzi, siate leggeri... Sì, buonanotte...

Calvino ci ha insegnato due verità opposte e necessarie una all'altra, se si vuol capire e amare la Letteratura. La prima è, per usare le parole di Robert Musil, che non esiste senso del reale senza il senso del possibile. La seconda ce la ricorda Wallace Stevens, quando dice che «se l'immaginazione non trae forza dalla realtà, non ha forza alcuna».

Il paradosso che lega queste due affermazioni si chiama, appunto, Letteratura. Con impareggiabile leggerezza (eh sì), Calvino ci ha presentato questo paradosso, su cui si sono spese alcune delle menti migliori dell'umanità. Ci rivela le vie della scrittura letteraria mentre introduce il più «realista» dei suoi testi, Il sentiero dei nidi di ragno, ma ci svela anche la molteplice, multiversale struttura del reale nel più visionario (e forse bello) dei suoi libri, Le città invisibili.

Comunista per fede, Calvino non risparmiò ai lettori giovanissimi la visione della parte brutta della realtà, anche se lo fece con racconti struggenti come nel ciclo di Marcovaldo. L'ideologia, non dimentichiamolo, nelle persone serie era anche pensiero, e metodo: Calvino sapeva raccontare il brutto assai meglio degli scrittori di oggi, che abbondano in sentimenti e paradossi proprio per la carenza di metodo. Eppure la sua fede ideologica non lo portò a raccontarci il mondo come una serie di problemi risolvibili con qualche rivoluzione. Niente paga il pianto di un bambino, e niente paga il dolore incosciente di un piccione che sta per morire. Nessun mondo migliore ci salva dal male che c'è stato.

Avere un metodo non vuol dire scrivere tutti i libri allo stesso modo, anzi, il metodo è nemico di ogni sicurezza, di ogni «so io come si fa». Pensiamo a un libro come Le cosmicomiche, capace di evitare in modo geniale tutto il Kitsch che sembrerebbe attenderlo a ogni riga. O a quando ci spiegava come si fa a scrivere un racconto: fallimento assicurato per chiunque non fosse lui.

A volte il metodo gli scappava di mano, come quando cercò - dall'autore tragico che era - di realizzare una trilogia, aggiungendo ai due splendidi primi episodi (Il barone rampante e Il cavaliere inesistente) il men che mediocre Visconte dimezzato, utile a ricordarci come nessun genio sia abbastanza geniale da evitare almeno un fallimento.

Ma questi sono dettagli. Piuttosto. Che cos'è uno scrittore? Leggete Il barone rampante e forse lo saprete. Uno scrittore è uno come tutti, che però un bel giorno comincia a vivere sugli alberi. Non lo fa per egoismo ma perché quello è il solo modo che conosce per essere utile al mondo: guardare il mondo dall'alto degli alberi, saltando sempre da un albero all'altro per restituire immagini sempre originali e sempre mobili. Anche se tutto questo si paga sempre con strazio e solitudine.

Ma non saremmo giusti se non riconoscessimo anche che Calvino sente oggi, forse più di altri, il peso degli anni. La sua opera è datata, il suo immaginario non appare più così capace di aderire al nostro. Sarà per la sua fede nella fiction con relativo apparato simbolico in un'epoca che sembra volerla dichiarare morta; o perché in un tempo di sfrenato individualismo facciamo fatica a riconoscerci nei suoi personaggi, che per quanto bizzarri e solitari vivono in una profonda simbiosi con la comunità di cui sono il prodotto; o sarà forse - questo è ciò che io penso - proprio perché in lui, come nel pensiero marxista (di cui Calvino fu interprete molto ortodosso), l'uomo è e resta un'espressione sociale, un prodotto della comunità in cui vive e non, anche, un generatore.

Per questo l'opera di Italo Calvino manca di ogni dimensione eroica: perché è come il filo d'inchiostro che «ora si ritorce su sé stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole», e questa è la sua forza, e anche il suo limite, come di chi non sappia o non voglia affacciarsi oltre la propria epoca.

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