C-cultura

Quel subdolo tranello in cui sta cadendo il mondo occidentale

Le multinazionali ingrassano nel nome dell'inclusione e dei diritti delle minoranze. E così alimentano un sistema illiberale

Quel subdolo tranello in cui sta cadendo il mondo occidentale

Le multinazionali, nel nome dell'inclusione e dei diritti delle minoranze stanno attuando la campagna propagandistica più conveniente di tutta la storia recente del capitalismo e imponendo codici di comportamento e regole morali.

Solo qualche giorno fa, Alice Cooper, la 75enne trasgressiva star del rock, aveva espresso contrarietà alla transizione di genere per bambini. In meno di 24 ore l'azienda con la quale aveva un remunerativo accordo di partnership gli ha rescisso il contratto. Non è la prima volta che si verifica un accadimento del genere. Da qualche tempo, infatti, i criteri con cui si giudicano le imprese iniziano ad essere non più solo i profitti e la qualità dei prodotti, ma la credibilità guadagnata dopo aver cooptato e dirottato la missione aziendale sulle cause woke (e dunque: identità di genere, Schwa, bagni gender neutral, teorie queer, intersezionalità, transfemminismo).

Si tratta di una nuova declinazione del capitalismo che non coglie più di sorpresa. Molte di esse sono aziende trasformatesi in vere e proprie concentrazioni di potere politico con l'obbligo esclusivo di incidere nella organizzazione della società e nell'immaginario. Carl Rhodes in Capitalismo woke (Fazi, pagg. 314, euro 20) ricostruisce la storia di questo fenomeno esaminando in maniera minuziosa una cospicua serie di strategie aziendali che avanzano nel solco del politicamente corretto e di un dogmatismo intollerante e che impegnano ogni forza in campagne pubblicitarie strategicamente «orientate».

Ormai, terrorizzati dai danni di reputazione causati da dichiarazioni «incaute» o da posizioni politiche non allineate, si contano a decine i casi di proprietari che organizzano rappresaglie verso chi si muove in ostinata direzione contraria, siano essi operai o manager di primissimo piano. Rhodes li cita uno ad uno. Goldman Sachs che adotta la neolingua obbligando i dipendenti ad usare un linguaggio neutro, gli spot di Gillette contro la mascolinità tossica, la durissima battaglia della Disney contro la legge della Florida che ostacolava l'insegnamento sull'identità di genere nelle scuole, i miliardi di dollari donati da Jeff Bezos (Amazon) per la lotta al cambiamento climatico, le cospicue sponsorizzazioni a movimenti di massa come Me Too e Black Lives Matter, le ingenti donazioni filantropiche scaltramente progettate per attrarre i millennial e migliorare il brand dell'impresa.

Ma dove nasce questo fervore giacobino? Innanzitutto, da calcolo utilitario e quindi ipocrita, in modo da favorire un forte e positivo effetto di immagine e di ricadute in termini di consenso e di introiti. Inoltre, da presupposti storici. Rhodes fa derivare l'odierna deviazione woke da radici antiche: dalla filantropia del primo novecento e dalla idea di «responsabilità sociale delle imprese», tema di dibattito nell'America di metà Novecento. Solo che, negli ultimi anni, dalla responsabilità si è passati all'ossessione furbesca per l'egemonia culturale e la giustizia sociale si è convertita in moralismo. Non sono dettagli di poco conto perché, oltre ciò, entra anche in gioco la finzione pubblica e le evidenti ricadute sui processi democratici (il sottotitolo del libro è: Come la moralità aziendale minaccia la democrazia). Siamo infatti di fronte ad accadimenti inconsueti e di portata radicale. L'azione legislativa non tende più a presupporre preventive discussioni da parte dei cittadini, e quindi dei parlamenti nazionali, ma è sempre più frequentemente istigata da questo mondo a cavallo tra grandi imprese e finanza che, grazie ad immense risorse, indirizza il dibattito (spesso contro la dichiarata volontà popolare della maggioranza) ed espone al pubblico ludibrio chi la pensa in modo diverso.

Per Rhodes, il capitalismo woke non è null'altro che una strategia di conservazione dello status quo. Le aziende, dando per scontato che lo Stato abbia fallito il proprio compito storico e che i governi paiono quasi del tutto privi di forza nell'affrontare queste sfide, valuterebbero corretto surrogare la politica e, al contempo, adottare una comunicazione con l'obiettivo unico di inculcare determinati valori. L'impressione è che però egli legga solo una parte del problema e, come nota anche Carlo Galli nella prefazione, critichi il capitalismo woke non perché le campagne che sponsorizza siano sbagliate, o perché faccia politica invece che profitti, né perché sia poco coerente, ma perché rappresenti una funesta degenerazione delle forme politiche occidentali e la fine della distinzione tra politica, società e terzo settore; di conseguenza, quasi incorrendo in una malcelata nostalgia del bel tempo andato che andrebbe solo emendato da qualche abbaglio.

Rhodes, infatti, non è pregiudizialmente contro il capitalismo woke perché non ne coglie la potenza simbolica e la pericolosità sociale, e perché lega le eventuali soluzioni ad azioni di carattere partitico e legislativo come l'aumento delle tasse sulle grandi imprese. Ma proprio in questo senso resta impantanato (e lo dichiara apertamente!) nell'alveo di quel fronte progressista che, pur rimasto spiazzato dal nuovo modello cultural-economico, identifica se stesso come soluzione.

Perde dunque completamente di vista il fatto che siamo di fronte a un inedito e ad una mistura di fenomeni. Il Pensiero Unico, di cui il wokeismo è il presupposto, è in realtà un'ideologia radicale capace di attrarre consensi a destra e a sinistra in maniera indiscriminata e di soprintendere sia al progressismo che alla versione 2.0 del capitalismo, dal momento che entrambi si rafforzano reciprocamente, senza perdere di significato e autorevolezza.

Un conformismo nichilista che riesce a saldare ogni cosa all'interno di un inedito sistema di credenze e di valori di cui il progressismo culturale aspira a reggere le sorti e a indirizzarne l'agenda.

Il wokeismo è decollato come una rivendicazione positiva - «essere all'erta sulle ingiustizie» - ed è diventato un movimento illiberale nel cui tranello sta cadendo l'intero Occidente.

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