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Le sue Ferrari valgono 80 euro al grammo: oltre il doppio dell’oro

Era modellista in una fabbrica di ceramiche. Trent’anni fa lasciò il posto per diventare l’ingegner Ferrari di Lilliput: fa le ruote da un centimetro di diametro, con 72 raggi che misurano 0,125 millimetri...

È tutta questione di proporzioni. La Ferrari 1984 Gto pesava 1.160 chili e costava 220 milioni di lire: 0,09 euro al grammo. Le Ferrari costruite da Vincenzo Bosica, come la 126 C2 che nel maggio 1982 si trasformò nella bara di Gilles Villeneuve sul circuito belga di Zolder, pesano un etto e in Giappone vengono scambiate fra i collezionisti a 8.000 euro: 80 euro al grammo. Ergo costano l’88.788% in più delle Ferrari autentiche. Per fugare gli equivoci che potrebbero derivare dai segni d’interpunzione: quasi il centomila per cento in più. Per essere ancora più chiari: 46 euro al grammo più dell’oro.
«Il guaio è che ci guadagnano soltanto i patiti di modellismo, mentre a me rimangono le briciole», recrimina il Michelangelo della miniatura. La sua arte è tutta qui: dare valore al niente, trasformare il grande in infinitesimo. Certo, se il tuo scopo è arricchirti, non passi metà della vita in uno scantinato di tre stanze più porticato, 110 metri quadrati di fuligginoso bordello, a Castelletto di Branduzzo, sperduta località del Pavese, con le lenti da 6 ingrandimenti calcate sulla punta del naso, come il vecchio riparatore di giocattoli di Toy story 2. E comunque Bosica, che nel 1980 lasciò un posto da operaio in fabbrica per inseguire la sua incoercibile passione, s’accontenta d’aver fatto studiare due brave figliole, «una è farmacista a Milano e l’altra interprete alla Cameron, compagnia texana di valvole per oleodotti».
Non è da tutti creare Ferrari finte che costano in proporzione più delle Ferrari vere, Ferrari che a fatica ospiterebbero una formica eppure identiche fin nei più minimi e nascosti dettagli alle Ferrari che i cumenda ingombrano con le loro panze. E non solo Ferrari: oltre alle «rosse» Gto, alla 126 C2, alla 156-85 e alla 375 Mille miglia, in trent’anni ha riprodotto anche le Porsche 356 Coupé e Carrera Speedster e l’Alfa Romeo 1750 Gs. Sette modelli, non uno di più, in pochissimi esemplari numerati («in genere una cinquantina, mai più di 100»), che sono finiti per il 90% in Giappone e per il rimanente 10% in Stati Uniti, Canada, Brasile, Germania, Francia, Belgio, qualcuno a Hong Kong, pochi in Italia.
Quando ci sono finiti. Perché per avere un modellino firmato Bosica gli appassionati devono prenotarsi con anni d’anticipo, mettersi in coda e attendere pazientemente il loro turno. «Mi ha cercato Ugo Gussalli Beretta, quello delle armi, erede della più antica dinastia industriale del mondo. Voleva a tutti i costi che gli facessi il modellino della Porsche 550 Spyder. L’ha pilotata in sette Mille miglia ed è la stessa con cui andò a schiantarsi l’attore James Dean sulla Route 66 in California. Non se ne parla nemmeno. Faccio 65 anni a luglio e non me ne basterebbero altri dieci per accontentarlo. Non voglio portarmi lavoro da finire anche nell’aldilà».
Esagerato? Provateci voi a lavorare in scala 1:43 e a far nascere dal nulla un’automobilina lunga 93 millimetri, larga 38, alta 30, dove le forcelline delle iniezioni meccaniche misurano 0,4 millimetri, i prigionieri del cambio (viti filettate senza testa, mica ergastolani) 0,3 e i rivetti 0,2. Poi tentate di farla muovere su ruote del diametro di 10 millimetri, con cerchioni sorretti da 72 raggi, ognuno dei quali avente un diametro di 0,125 millimetri. Un momento, non è ancora finita: dovete fare in modo, servendovi della molla di un bilanciere d’orologio, che a ogni giro delle ruote corrisponda l’avanzamento del tachimetro alloggiato nel cruscotto lillipuziano.
Bosica ha sempre lavorato da solo. L’unica volta che una potenziale allieva, dotata di manualità discreta, s’affacciò nel suo antro spinta più dalla necessità di guadagno che dalla passione, scappò via dopo pochi giorni con i capelli dritti. «La prima regola è che devi saper fare tutto». Anche inventarti gli attrezzi necessari per eseguire le complicate, micrometriche, estenuanti lavorazioni, quando quelli in commercio non bastano. Per esempio ha brevettato un macchinario che costruisce le ruote con i raggi, copie perfette in miniatura di quelle prodotte per la Ferrari e per la Ford dalla ditta Borrani di Rho.
È impressionante la mole di strumenti di cui l’artigiano si serve: tre torni («compreso l’esemplare numero 1 prodotto nel 1954 dalla svizzera Pétermann per un’azienda di orologi»), due presse, due trapani, fresa, pressa a iniezione per gomma, pantografo, aerografo, calibri, lime, persino una turbina usata dai dentisti per rimuovere le carie. Ancora più impressionante è osservare le migliaia di componenti, più simili al pulviscolo atmosferico che alla ferramenta, forgiati dalle mani di Bosica e custoditi in teche trasparenti: pistoncini, puleggine, marmittine, vitine, dadini, bulloncini. Ogni modellino può contenere da 150 a 800 pezzi.
Si sarà mangiato la vista a montare tutti questi minuscoli ingranaggi.
«Può dirlo. Alla Porsche 356 Carrera Speedster ho lavorato per 19 anni».
Sta scherzando?
«No. Alla fine ero talmente esausto che ho dovuto cedere il prototipo, finito al 95%, al mio amico Abe Yoshiyuki, un preparatore di auto da competizione che abita a Nagoya, in Giappone. Lui l’ha ultimato e ha avviato la produzione in serie con la sua azienda, la Raccoon. Ora vende il modellino a 3.000 euro, che scendono a 900 per chi lo acquista in scatola di montaggio ed è capace di costruirselo da solo».
Nessuno la aiuta?
«Quella santa donna di moglie mi dà una mano per le saldature. Lavoro solo in lamiera di rame oppure in metallo bianco, cioè una lega di piombo, stagno, antimonio e rame. Uso acciaio, gomma, legno e pelle solo per alcuni particolari, come le corone dei volanti. La plastica mai».
Fa meglio dell’industria automobilistica, che tra un po’ ci rifilerà le carrozzerie in moplen.
«L’auto vera è in lamiera. Ma solo per ottenere un parafango ci vogliono quattro stampi. Osservando le bambole delle mie figlie, mi sono accorto che erano prive di giunture. Così sono andato a visitare lo stabilimento di Lonate Ceppino, nel Varesotto, che produceva le Barbie per la Mattel. E da lì ho messo a punto un processo di elettroformatura con bagno galvanico».
Ma com’è che una mattina lei si sveglia e decide di diventare l’ingegner Ferrari di Lilliput?
«Una fissazione infantile. Sono originario di Teramo. Mio nonno Giuseppe emigrò per fame a Philadelphia nel 1902. Posava i binari della ferrovia e la sera imparava la tecnica per costruire i carri agricoli. Mio padre Mario emigrò a sua volta nel 1960, in Germania. Andò a fare carri agricoli a Coblenza. Giocavo nella falegnameria di mio nonno, costruivo piccoli trattori e trebbiatrici».
Non le avranno per caso negato un’automobilina a Natale?
«Questo genere di regali manco esisteva. Il mio sogno era una bici vera. Me la regalarono da grande, una Amerio modello Balloncina, con la dinamo marca Radius e le ruote in legno di faggio».
Quindi al modellismo come c’è arrivato?
«Ho frequentato l’istituto d’arte a Castelli, il paese delle maioliche alle falde del Gran Sasso. Volevo diventare docente di educazione artistica, come mia moglie Francesca, che conobbi sui banchi di scuola. Invece finii a lavorare alla Villeroy & Boch di Teramo. Venni a sapere che a Lungavilla, nel Pavese, cercavano un modellista nella fabbrica di ceramiche di proprietà d’un professore che insegnava all’Accademia di Brera a Milano. Così nel 1969 salii al Nord. Un amico di Lungavilla, al quale avevo confidato che nel tempo libero mi piaceva costruire galeoni in miniatura, mi chiese se potevo procurargli una scatola di montaggio per il figlio appassionato di moto. Gli portai una Laverda acquistata a Milano. Migliaia di pezzi. Alla consegna scoprii che il destinatario era un bimbo. Mi vergognai come un ladro e gli promisi che gliel’avrei costruita io. Ma poi, a casa, non mi piaceva nessuno dei componenti che mi ritrovavo fra le mani. E allora con una piegatubi ho rifatto il telaio, poi ho rifatto le ruote, poi ho rifatto la testata. Finché non l’ho rifatta tutta».
Era nato un monomaniaco.
«Qualcosa del genere. Mi era venuta talmente bene, questa Laverda 750 Sf, che nel 1975 decisi di portarla a Torino, a un’esposizione organizzata da Quattroruote. Carlo Brianza la vide e rimase a bocca aperta. È l’unico pezzo che ho tenuto per me. Insieme con la Ferrari 156-85 fatta per Enzo Ferrari: purtroppo l’ingegnere morì prima che potessi consegnargliela. Non venderei questi due oggetti per tutto l’oro del mondo».
Chi è Carlo Brianza?
«Chi era. Un signore di Tradate che costruiva modellini. Mi propose di lavorare per lui. Aveva bisogno dei prototipi da produrre in serie. Nel 1976 gli portai una Ferrari 712 Can-Am. Mi chiese: “Quanto vuole?”. Mah, non saprei valutare, decida lei, gli risposi. Prese il blocchetto e mi staccò un assegno da 500.000 lire. A valori di oggi sarebbero oltre 4 milioni di lire. Io allora ne guadagnavo 200.000 al mese e mia moglie 120.000. Non credevo ai miei occhi. Ci avevo lavorato per una quindicina di giorni, nel tempo libero. Tre anni dopo lasciai il posto nella fabbrica di ceramiche per dedicarmi solo al modellismo».
Sua moglie che le disse?
«Che ero pazzo. Il dubbio venne anche a me quando, a un mercatino di appassionati in largo Augusto, a Milano, vidi che la mia Ferrari, affidata da Brianza a una ditta di Napoli per la produzione in serie, era in vendita a 100.000 lire. Avevano cancellato la firma “Bosica”. Protestai. La replica di Brianza fu: “A te non ti conosce nessuno”. Cacchio, e quando mai mi conosceranno se raschi via il mio cognome? Alla fine litigammo».
E lei divenne il più famoso al mondo.
«No, uno che mi ha superato c’è: Manuel Olivé Sans, spagnolo di Barcellona. Ma è morto anche lui. Pensi che negli anni Ottanta un gioielliere sborsò 900 milioni di lire per avere una sua collezioni di modellini. Oggi sarebbero 2 miliardi e mezzo di lire».
I suoi concorrenti chi sono?
«In genere si tratta di trapananti, come li chiamo io».
A quali fonti attinge per riprodurre le auto fin nei minimi dettagli?
«Ha idea di quante giornate ho passato in via San Marco, a Milano, dove Gastone Crepaldi aveva la concessionaria Ferrari? Adesso, quando ho un problema, vado direttamente a Maranello e lì mi devono assistere».
Devono?
«Sono licenziatario. La Ferrari mi fa pagare una royalty del 12% sui prototipi che costruisco. La Porsche, se non altro, s’accontenta del 5%».
Quanto ha investito in macchinari?
«L’investimento è in ore di lavoro: dalle 8 alle 13 e dalle 15 alle 20, tutti i giorni».
Ci vuole arte.
«Lasci stare l’arte. Parlerei solo di abilità nel saper usare i materiali. Arte era quella di Michelangelo».
Quante prenotazioni ha in sospeso?
«Ah no, alla mia età? Basta ansie. Ha mai sentito parlare di Manfred Gurlitt, compositore e direttore d’orchestra tedesco, pronipote del musicista Cornelius Gurlitt? Per non essere arrestato dalla Gestapo, emigrò a Tokyo nel 1939. Suo figlio mi spedì dal Giappone un assegno di 15 milioni di lire come acconto per un modellino. Niente da fare, gli scrissi. Ma lui insisteva: “Li tenga. Mi rimetto alla sua tempistica”. Cinque anni ho impiegato per riuscire a restituirglieli a rate».
Chi è un appassionato di modellismo?
«Uno che ha l’auto vera e la vuole anche in scala oppure un appassionato che non può permettersi l’auto vera e s’accontenta di quella in scala».
Ma che cosa cerca nei modellini?
«La sua fanciullezza».
Giocattoli per adulti. Infatti i bambini non comprano le scatole di montaggio.
«C’è la Playstation a rincoglionirli. Ma la voglia l’avrebbero. Solo che non trovano mai un padre o un nonno che giochi con loro. Il mio nipotino Luca, 3 anni, per fortuna promette bene. È sempre qui in laboratorio. Ho deciso che la Ferrari fatta per l’Ingegnere la lascerò a lui, insieme con la moto Laverda».
Ma lei hai mai pilotato una supercar?
«No, però ho fatto tre giri sul circuito di Monza seduto a fianco di Oscar Larrauri, il pilota argentino di Formula 1, su una Porsche 962 Sport Prototipo. Mi sono cagato addosso, scusi l’espressione. E guardi che io sono stato paracadutista della Folgore. Andava a 320 chilometri orari. Sempre poco a confronto con i 387 che Larrauri ha raggiunto a Le Mans. Lì ho capito che piloti non si diventa: si nasce».
Che consigli darebbe a Sergio Marchionne?
«Uno solo, semplicissimo: costruisca auto che piacciono. Oltre al motore, conta il vestito. Ci sarà un motivo se le strade pullulano di Bmw, Audi e Mercedes. La gente è disperata, ha bisogno d’aggrapparsi a qualcosa di bello».
Non si sente un po’ in colpa per aver dedicato la vita a una passione così frivola?
«Sì. E dire che avrei voluto diventare pittore. Ho visto un Canaletto esposto al Lingotto. Purtroppo il buon Dio non mi ha dato la mano di Giovanni Antonio Canal».
Pensi a quali strumenti di precisione per la chirurgia avrebbe potuto realizzare.
«In effetti era venuto a trovarmi un chirurgo oculista di Milano: voleva un ago per cucire alcune parti dell’occhio con un filo microscopico. Ero pronto a tentare. Ma poi ho ripensato a quello che mi ha detto Laurent Ferrier, maestro orologiaio di Ginevra, collezionista di Porsche Speedster in miniatura, che ha lavorato per 37 anni alla Patek Philippe».
Che le ha detto?
«Mi ha regalato il libretto d’istruzioni del Calibro 89, l’orologio più complicato e più caro del mondo, venduto all’asta per 11 milioni di dollari, dotato di una ruota d’ingranaggio che compie un giro completo ogni 100 anni. E mi ha detto: “Sa, Bosica, sono quasi due secoli che lavoriamo sempre sulla stessa cosa”».
(548. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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