Sul «12», isole di vita in una Milano a fisarmonica

di Luca Doninelli

Milano non presenta un piano cittadino ordinato. Ha i suoi cerchi, questo è vero, che l'arrotondano un po’, e qualcuna delle sue zone rivela una pianta lineare, ben pensata. Per il resto - ma questo è secondo me il suo bello - la città sembra fatta di tanti pezzi raccordati insieme col filo di ferro, come fanno certi meccanici alle prese con automobili troppo vecchie.
Distrutta e ricostruita troppe volte, cresciuta come Troia sulle macerie del proprio passato, Milano non ha avuto tempo né voglia di pensarsi come un tutto ordinato. Eppure non è nemmeno disordinata. Si direbbe che l’ordine risieda nel carattere dei suoi cittadini, che l’hanno edificata e riedificata sempre seguendo alcune idee-guida, sempre obbedienti a un’antica ricetta fatta di sobrietà, senso dell'abitare, passione sociale, vita privata strettamente unita alle dinamiche del lavoro.
Oggi prendo il tram della linea 12, che parte da viale Molise e termina a Vialba, ospedale Luigi Sacco. Io salgo in Via Larga, dopo che il 12 ha già percorso viale Molise e corso 22 Marzo. Già in Via Mazzini e poi in Cordusio il tram si riempie di cinesi diretti al loro quartier generale, ovviamente in zona Bramante/Paolo Sarpi.
Ci arriviamo seguendo un percorso serpeggiante, prima lungo la direttrice comacina (Broletto-Ponte Vetero-Mercato), poi piegando a sinistra verso Foro Bonaparte, poi - circumnavigando il brutto teatro Strehler - di nuovo a destra e infine ancora a sinistra, fino a Porta Volta, dove incontriamo uno dei punti più interessanti di Milano, tra il cinese e il neo-fighetto, che vive intorno a Via Paolo Sarpi. Ma per dedicare un articolo al brillante quartiere aspettiamo che si concludano i lavori lungo il decumano cinese.
Passata Chinatown, superate le vie Procaccini e Messina, dove la densità abitativa si riduce, la città torna a raddensarsi dopo il Monumentale, con la lunga Via Cenisio. Qui non c'è molto di interessante se non che, con l'avvicinarsi della direttrice Sempione - con cui Via Cenisio converge in Piazza Firenze - il paesaggio si fa più gradevole, i palazzi meglio curati. Spuntano negozi meno ordinari.
In piazza Diocleziano, poi, imbocchiamo l'interminabile Via Mac Mahon (quasi due chilometri), tipica via milanese con i binari del tram a fare da spartitraffico. Ci troviamo in quella che fu la Milano di Giovanni Testori, che qui ambientò la celebre storia della sua Gilda: la Milano dei grandi quartieri popolari dell'epoca fordista, pieni di ex-contadini.
Oggi via Mac Mahon è fatta di tre parti distinte: il primo tratto presenta un volto ben curato e multietnico, con ristoranti esotici, macellerie islamiche, la solita pizzeria napoletana d.o.c. (troppa, troppa Napoli a Milano negli ultimi dieci anni: troppi soldi strani) misti ai negozi tradizionali: panetterie, ferramenta, farmacie, abbigliamento, tutto mescolato, come sempre succede quando i clienti sono quasi tutti gente del posto.
Il secondo tratto, passato viale Monte Ceneri, si raddolcisce, i volumi si diradano, compaiono perfino alcune villette, testimoni di un tempo lontano in cui qui era campagna e la gente benestante veniva in "villeggiatura": parola ormai quasi incomprensibile. Percorro questo tratto a piedi, incuriosito da questi edifici ordinati, da questa topografia a misura d’uomo. Ritrovo verande, bersò. Questo tratto si conclude all'incrocio con Via Bramantino, dove sorge la chiesa bianca di Gesù, Maria e Giuseppe. Molti gli stranieri, ma anche molti italiani: segno che qui si è cercato di far le cose per bene.
Il terzo tratto, verso Piazza Castelli, ripropone sulla sinistra i fitti palazzi del primo, mentre sulla destra alcuni edifici popolari, più radi, ben risistemati e rivestiti con piastrelle bianche, lasciano vedere, dietro, gli alberi di un ampio parco: quello dedicato, naturalmente, a Giovanni Testori.
Dopo Piazza Castelli la città si dirada nuovamente. Via Console Marcello corre tra i margini di vecchie campagne che nessuno seppe dotare di un piano urbano ordinato e adesso se ne stanno lì, nel loro incurabile disordine, nelle loro improbabili sovrapposizioni. Verso la metà del suo cammino, però, questa brutta via lambisce il vecchio comune di Villapizzone.
Scendo nuovamente dal tram e mi avvicino a quello che fu un piccolo paese stretto intorno alla piazza della chiesa di san Martino, dove si affaccia anche la vecchia villa Radice Fossati. Qui del paese non resta moltissimo, a parte l'ordito delle vie e alcuni edifici notevoli. Ma l’orgoglio degli abitanti ne ha fatto un piccolo gioiello, pulito, ben tenuto. Le case popolari sono diventate quasi belle, e in una piazza adiacente quella della chiesa è stata sistemata in tempi recentissimi una grande fontana: «Ha visto la nostra fontana di Trevi?» ironizza un vecchio, vedendo che la fotografo.
Tutto, qui, ci parla di abitabilità, di una misura umana difesa con i denti, non abbandonata nelle mani del primo venuto, come testimoniano, purtroppo, i dintorni che assediano Villapizzone. Qui i legami con gli altri pezzi di città appaiono labili anche quando ben curati, come all’inizio di Via Lambruschini, che collega l'ex-paesino con i nuovi volumi della Bovisa.
Il 12 raggiunge poi viale Espinasse, separato dalla sua continuazione, Via Mambretti, dalla ferrovia per Torino, e congiunto ad essa per mezzo di quel bizzarro by-pass viario che è via Palizzi. I due capi di questa via si somigliano, segno che qui un tempo esisteva un borgo unito, devastato poi da altre esigenze urbanistiche e ancora sanguinante. Alcune vecchie case, talora belle talora solo pretenziose, ci parlano di un tempo in cui la rete di queste vie aveva un senso.
Proseguendo verso Vialba e l'ospedale Luigi Sacco, dove il 12 finalmente riposa, rifletto su tutte le situazioni urbanistiche poco chiare che il lungo percorso del tram mi ha fatto attraversare. La città sembra fatta, qui, a fisarmonica, un po’ si raddensa e un po’ si rarefà. Molti insediamenti, come Vialba, hanno l’aspetto di cul-de-sac, legati al resto della città da un'unica via, spesso stretta e poco funzionale. È chiaro che questo finisce col produrre insicurezza, pericolosità, disagio, bruttezza.


Dove questa legge del disordine non fa presa? Dove esiste una buona programmazione territoriale (zone o quartieri ben disegnati), ma soprattutto in luoghi come Villapizzone, dove la gente non si rassegna a una vita di sola fatica e - magari anche alzando la voce - fa valere la propria dignità. Talvolta bastano pochi uomini, al limite uno solo, per produrre, anche in mezzo al disordine, un po’ di bellezza e, quindi, una vita un po’ migliore.

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