Sul caso Iran la sinistra rischia l’immobilismo

Alberto Indelicato

Nello scorso quinquennio i partiti di centrosinistra hanno ripetutamente accusato il governo Berlusconi di non avere una politica estera abbastanza «europea». Quasi sempre essi intendevano che per essere europei bisognasse allinearsi automaticamente sulle posizioni della Francia di Chirac e della Germania di Schröder, come se quei due paesi avessero una sorta di monopolio dell’europeismo. Se ne dovrebbe dedurre che oggi non esiste più l’Unione europea, perché quell’asse si è praticamente dissolto. A Berlino la signora Angela Merkel ha dato un colpo di barra alla diplomazia tedesca riavvicinandola agli Stati Uniti, mentre il gallo francese, dopo i suoi insuccessi sia sul piano internazionale che sulla stessa politica europea è talmente indebolito da non potere più far intendere il suo orgoglioso chicchirichì sulla scena internazionale.
Parigi e Berlino, assieme a Londra e a nome dei Venticinque dell’Ue, hanno cercato di convincere l’Iran a rinunciare alla sua pericolosa ambizione di accedere al rango di potenza nucleare militare. L’impresa è clamorosamente fallita. Teheran si è fatta beffe della troika ed ha anzi alzato sempre più i toni sfidando la comunità internazionale, sicché anche i «pacieri» si sono dovuti allineare a Washington. Gli Stati Uniti, prima di ricorrere alle maniere forti, stanno cercando di far condannare l’Iran dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Se dunque il 28 aprile prossimo l’Iran non avrà sospeso l’arrichimento dell’uranio, potranno essere adottate nei suoi confronti le misure previste dal capitolo VII della Carta dell’Onu. Si dovrebbero decidere delle sanzioni economiche, anche se è già escluso che esse riguarderanno l’importazione di petrolio, che nuocerebbe ai «sanzionatori» più che all’Iran. Infatti la conseguenza sarebbe un’ulteriore impennata del prezzo del barile. Ma gli Stati Uniti non ritengono che le sanzioni economiche sarebbero sufficienti a piegare Teheran ed ormai accennano ad altre misure, non escluse quelle militari.
A questo punto c’è da chiedersi quale posizione prenderebbe il governo italiano se a dirigerlo fosse Romano Prodi (il che non è ancora certo). Potrebbe esimersi dall’aderire a quell’Europa rappresentata alle Nazioni Unite da Francia e Germania, che il centrosinistra ha celebrato come la quintessenza dell’europeismo? Sappiamo sin d’ora che l’azione italiana dipenderebbe da due gruppi totalmente diversi, ma entrambi concordi nell’opporsi con tutti i mezzi a loro disposizione alle sanzioni economiche nei confronti dell’Iran. Il primo gruppo è costituito da tutti quegli industriali che in Iran hanno notevoli interessi: grandi costruttori, esportatori di prodotti di ogni genere, compresi quelli di alta tecnologia. Il secondo è formato proprio da quei partiti e gruppi di sinistra più o meno estrema sempre contrari per principio a qualsiasi azione internazionale che coincida in tutto o in parte con la politica degli Stati Uniti, anche se essa dovesse avere l’avallo di Ue, Onu e del suo Consiglio di sicurezza.
Le pressioni degli industriali e dei «pacifisti» antiamericani costringerebbero indubbiamente un eventuale governo Prodi all’immobilismo. Con un solo colpo così l’Italia sarebbe isolata da Europa, Usa e da quelle Nazioni Unite così a lungo misticamente invocate in precedenti occasioni. L’unica via d’uscita per Prodi consisterebbe nell’invocare l’appoggio dei partiti della Casa delle libertà con il rischio di rompere con buona parte della sua coalizione. Non è difficile immaginare che, pur di non recarsi ad una umiliante Canossa, egli si arroccherebbe nel fortino in cui si è rifugiato per una (dubbia) vittoria elettorale.

Con quali conseguenze per la dignità del Paese non è difficile immaginare.

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