Roma - È la «condanna» a governare, più che un qualche patto segreto o una conversione politica repentina, la spiegazione del tratto comune tra Silvio Berlusconi e Mario Monti. Man mano che vengono al pettine i nodi delle riforme e che si devono tradurre gli impegni europei in leggi e fatti, aumentano le analogie tra l’esecutivo guidato dall’economista di Varese e quello di centrodestra caduto nel novembre scorso. Di conseguenza, cresce anche la distanza tra il governo in carica e il centrosinistra, in particolare il Partito democratico, che ha impiegato gli anni all’opposizione a dimostrare che certe politiche erano solo il frutto di scelte dell’odiato Cavaliere. Lo scossone è arrivato con i primi passi della riforma del lavoro. Vedrà la luce entro due mesi, dopo un confronto con le parti sociali, ma è già chiaro che cambierà molti capisaldi cari alla sinistra. In un modo o nell’altro, anche l’articolo 18. Ogni tentativo del precedente governo di modificarlo è stato bollato nella migliore delle ipotesi come un accanimento ideologico su un argomento poco rilevante.
La dimostrazione che sia invece una riforma per nulla marginale è dimostrato dal fatto che il premier ha messo di nuovo la faccia su un cambiamento della legge che regola il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente.
Il confronto è ancora in corso, ma l’articolo 18 per Monti è «un tassello» importante dei cambiamenti che l’Europa ci chiede. Cambiarlo significa riportare investimenti in Italia. Monti ha sostenuto queste tesi sapendo che – come è regolarmente accaduto – avrebbe perso parte delle simpatie di cui godeva a sinistra. Il segretario democratico Pier Luigi Bersani in questi giorni non nasconde il disagio. La presidente del Pd Rosy Bindi minaccia di non votare i provvedimenti del governo.
E sul sindacato, dopo mesi di scelte più o meno unitarie, torna a soffiare il vento degli accordi separati. Dopo le prime aperture sui licenziamenti economici da parte di Luigi Angeletti, segretario della Uil, è stata la volta del leader della Cisl Raffaele Bonanni. Fino a ora era stato prudentissimo, ieri ha detto sì a una «robusta manutenzione» dell’articolo 18. In sostanza, mantenere l’obbligo di reintegrare il lavoratore solo sui licenziamenti discriminatori (per motivi politici, culturali, religiosi, ecc.) e aprire su quelli economici. Anche Susanna Camusso sta timidamente cercando di spostare la sua Cgil in modo da fare accettare un cambiamento di questo genere, ma non è detto che ci riesca. Lo scenario più probabile da qui alla fine di marzo è quindi che Monti si ritrovi, come il governo Berlusconi, impossibilitato a dialogare con il primo sindacato. Costretto a fare i patti solo con Cisl e Uil.
L’Unità ieri si chiedeva se il governo non stesse «cambiando natura», riferendosi alla riforma del lavoro, ma non solo. A rendere Monti troppo simile al Cavaliere, c’è anche la politica europea. Il presidente del Consiglio in carica – si legge nell’editoriale di ieri - rischia di ricondurre l’Italia «nel ruolo subalterno che aveva Berlusconi». Il Cavaliere troppo europeista, insomma. Non si citano, ma solo perché non sono politicamente sensibili, le altre politiche effettuate in sostanziale continuità tra i due governi. La gestione dei conti pubblici, la riforma della pubblica amministrazione, le infrastrutture. Con il Pdl restano differenze su alcuni temi, come le liberalizzazioni.
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