nostro inviato sulla Via della Seta
La bambina avrà sei anni, forse sette. Camicetta rossa, gonna blu su uno sfondo verdino di salici piangenti. Un faccino smunto, serio, le trecce un po’ sfatte. Si chiama Shou, così mi è parso di capire. Quando le auto e i camion si fermano al semaforo si fa avanti, un po’ vergognosa. Regge con entrambe le mani un bacile smaltato di bianco, di quelli che usavano per lavarsi, nelle nostre campagne, al tempo dell’Albero degli zoccoli. Da vendere, Shou ha due pannocchie bollite, senza sale. Costano 3 yuan l’una: l’equivalente di 3 centesimi di euro. Gliele compro tutte e due per cinquanta yuan. Si fa ancora più seria. Sembra preoccupata. Poi ride, un po’. «Siè siè», grazie, dice. E arrossisce.
Il padre della piccola è rimasto sul ciglio della strada, accanto alla sua miserabile bottega: un frigo vuoto, due cestelli di acqua minerale, dieci pesche. Altro non c’è. Accanto al frigo, una branda con un materasso lercio. Quattro assi da muratore, alte forse due metri, fan da pilastri. Il tetto è una coperta lurida. E, sulla coperta, un foglio di plastica legata con lo spago per quando piove, come adesso. Una cuccia da cane, prima che i cani diventassero animali da compagnia.
Baracchette come questa, mentre l’automobile procede tra frutteti, distese di granturco e girasoli alternati a una selva arruffata, incolta, ne conto a dozzine. Non sono le sole immagini di miseria nera che si rincorrono lungo la strada che porta a nordovest. A destra e a sinistra vedo villaggi e cittadine con le strade sterrate, casupole a un piano, botteghe e officinette a luci spente o illuminate da un pallido neon, da una lampadinetta, come nel Punjab pachistano, nello sgangherato sud iracheno. Anziani seduti sui talloni, intenti a fumare; contadini con la faccia a pianta larga, di origini mongole; vecchie corriere che esalano un sentore di rancido; carretti a motore stracarichi di passeggeri che si stringono l’uno all’altro per difendersi dallo sventolìo. Una puzza di miseria che stringe il cuore; che stride orribilmente con l’immagine romantica che io avevo della Via della Seta, tra imperatori e cortigiani, carovane di mercanti e Buddha dormienti, monaci e imprenditori del Nordest italiano alla Marco Polo.
Bisognava venire fin qui, nello Shanxi, cuore del Paese di Mezzo, per capire davvero cos’è, com’è la Cina vera, al di là della rutilante facciata della capitale. A Pechino, a Shanghai, a Canton, nelle metropoli della costa dove ogni giorno si sacrifica al dio del Consumo e dell’eccesso, vedi la Cina del boom, delle griffe internazionali, dei sigari Avana, dei grattacieli sfavillanti, dei pervenuti (come li chiamava Gadda), dei tycoon e delle femmine di lusso che vestono Armani e sanno di Chanel. Ma basta fare un’ora e mezzo di aeroplano per piombare in una sorta di sterminato, irrimediato Terzo Mondo di cui nessuno parla mai. Un mondo arcaico, rurale, che non fa notizia; catafratto nella sua ignoranza e violentato da incongrui lampi di modernità come il tv color e il cellulare; aggredito da sentori di fogna, costretto a condurre una vita elementare in cui parole come Parigi, Berlino, Roma, sono suoni difficili, irripetibili, con tutte quelle «erre». Suoni che non evocano niente di niente.
A Ying Shou, anonima cittadina disegnata da geometri che si sono formati sui testi scritti nell’Unione Sovietica degli anni ’50, entro in un bar. Si chiama, e non si capisce perché, «My best drink». Chiedo della toilette. Dentro, accanto alla tazza del water, c’è una pentola su un fornello. «Oggi montone col cavolo», ride compiaciuto il proprietario del bar, mostrando una fila di denti color chiglia di nave carboniera. Una nuvola di fumo, nelle due stanzette del bar. Nove tra uomini e donne giocano a mah-jong, a soldi. Si fermano folgorati dall’immagine del forestiero. Mi guardano con la stessa stupefatta curiosità con cui gli Xavantes, i Borontes dell’Amazzonia, devono aver guardato i primi esploratori. Fiati pesanti. Ci senti l’aglio, l’aceto, i cetrioli dell’altro ieri. Fuori, su un lato dell’immensa, inutile piazza, un cumulo di spazzatura.
Da quando ho lasciato Xi’an, puntando su Binxian e il Grande Tempio del Buddha, non ho più visto una bandierina, un manifestino che ricordino le Olimpiadi. L’ultimo segno della baldoria che si consuma a duemila chilometri da qui l’ho visto sul dazebao con i cinque cerchi della Lenovo, il gigante dell’informatica che ha inghiottito l’Ibm lasciando gli americani con due palmi di naso.
«Questo - mi aveva detto uno studente universitario sull’aereo che mi portava da Pechino a Xi’an - è una specie di retrobottega del Paese. Ma non si aspetti di trovare qualcuno che protesta. I poveri, nelle campagne, sono rimasti più o meno com’erano al tempo dell’imperatore Qin Shi Guangdi o di Mao Zedong. Parlo del modo di pensare. L’autorità non si discute. L’idea di opporsi a chi detiene il potere è semplicemente impensabile».
Mezz’ora di contemplazione, di silenzio, davanti alla Grande Statua del Buddha, sette chilometri a nord di Binxian. Una statua immensa, alta forse trenta metri: punto di partenza di un tour che non farò mai, verso i templi taoisti del Kongtong Shan, nel Gansù. Torno a Xi’an, grande capolinea nell’antichità della Via della Seta, la più grande arteria commerciale del mondo. Qui facevano sosta con i loro cammelli carovane di mercanti che festeggiavano arrivi e partenze per l’Asia Centrale e l’Europa. Luci accese fino all’alba, musiche, grandi banchetti prima di affrontare le pianure che annunciavano il deserto del Takla Makan, il cui nome in turki significa, semplicemente, «se entri, non ne esci più» e in cinese «sabbie semoventi», per le sue dune gialle spazzate dal vento.
A Xi’an prendo un caffè da Starbucks che ha lo stesso sapore inutile di quello di New York. Supero un McDonald’s, un Kentucky Fried Chicken. Dalla porta aperta di un club escono le note di un rap. Globalizzati, fottuti anche i cinesi, mi dico. Punto verso la Torre della Campana e quella del Tamburo (la prima annunciava l’alba; l’altra il calare del sole) che anticipano il quartiere musulmano, quello dei cinesi della comunità hui. Donne velate, uomini fieri; zucchetti bianchi, facce che ricordano quella di Dersu Uzala, il mongolo-siberiano protagonista del celebre film di Akira Kurosawa. A lui somiglia anche il venditore di almanacchi che mi viene incontro lungo la Beyaunmen, la strada del mercato. Eccola, la Cina del VII secolo: quella che di Olimpiadi e di modernità e del disumano capitalismo in giallo voluto dal regime, non vuol sapere. Cammino per questa stradina che brulica di umanità, in una serata di umidità cambogiana, nella fumigante atmosfera prodotta da decine di piccoli bracieri su cui si consumano spiedini di kebab. È la Cina di cui il regime un po’ si vergogna e che piace ai turisti: quella dei venditori di noci tostate e salate, delle sartorie, dei calligrafi, dei risciò a motore, dei venditori di giuggiole e di cicale in gabbia.
Punto sulla Grande Moschea, con le sue incongrue palme e il suo strambo minareto «cresciuto» da una pagoda. Davanti al muro degli Spiriti, progettato per tenere lontano il Maligno, c’è un uomo di mezz’età. L’interprete mi dice che nel quartiere musulmano lo conoscono tutti. Viene qui ogni sera, con la sua pesante bicicletta dai freni a bacchetta, a vendere i cinque grandi pani, come delle spesse focacce, preparati dalla moglie. Abbiamo chiacchierato un po’. Si chiama Sun Ja. Dice che lui non capisce più nulla di quello che lo circonda. «Guardo la televisione, vedo il lusso di Pechino, i grattacieli.
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