«E la chiave sta unicamente e soltanto in ciò, che nel sonno si divenga coscienti della forma del proprio io, della propria pelle per così dire - e si trovi lo stretto spiraglio attraverso cui la coscienza si forza il cammino tra la veglia e il sonno profondo». Ciò che Amadeus Laponder dice nel Golem di Meyrink, Cees Nooteboom lo afferma, con forza ma nello stesso tempo disillusione, in ogni sua pagina. La sensazione dimpoverimento che il sogno svanito ci lascia è la stessa che avvertiamo una volta terminati i suoi libri. «Ecco - pensiamo - un altro sogno è finito. Ora le cose torneranno ad avere un inizio e una fine. Saranno ben distinguibili. Saranno le solite cose».
Quando esordì con Philip e gli altri, Nooteboom aveva 22 anni. Era il 1955. In quel libro, ora proposto per la prima volta in italiano dalleditrice Iperborea (pagg. 154, euro 13,50, traduzione di David Santoro), si aggira una grazia onirica. Come Philip, Cees vagava per lEuropa, beveva e camminava sotto la pioggia a Calais, ascoltava il respiro profondo di Parigi, prendeva un traghetto in Danimarca, faceva su e giù per la Penisola Scandinava. E come Philip (e come tutti i grandi viaggiatori) stava sempre nello stesso posto. Jacqueline, che rifiuta il suo bacio, è la piccola sibilla che gli predice un futuro immobile: «Non vivrai mai veramente nulla, ricorderai soltanto, non incontrerai nessuno, se non per dirgli addio, e non vivrai un giorno senza contare sulla sera, o sulla notte».
Infatti Philip è solo a inseguire un volto cinese di fanciulla, la fata di una fiaba sminuzzata e poi gettata, come una manciata di coriandoli, in giro per lEuropa. Forse lo zio Antonin Alexander avrebbe potuto essere il suo Virgilio, fra i gironi in cui avvertiamo ancora gli spettri della guerra. Ma lo zio se ne sta nella sua grande casa in Olanda, a suonare il clavicembalo con lo zucchetto in testa. Così Philip, pellegrino senza meta, fuggitivo senza rimpianti, si mette in moto e ascolta. Le storie che Maventer, Heinz, Sargon e gli altri gli raccontano sono carburante per il suo fragile motore. Lui se le mette nello zaino e riparte.
«È sempre stato così - ragiona Philip -, in tutti i miei viaggi: sono sempre un perdente, perché mi attacco troppo alle cose, o alle persone, e così il viaggio non è più un viaggio, ma un ripetuto addio. Ho passato il tempo a dire addio e a ricordare, e a raccogliere indirizzi nelle mie agendine come piccole lapidi». Ma è Cees, questa volta, a parlare. Il Cees giovane autostoppista e quello che, poi, sempre e comunque, ha illuminato con la luce piatta del sogno gli scantinati della solitudine.
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