Cronaca locale

Sulle tele il realismo magico dell’America

Nel manuale di storia dell'arte di Argan, che ha esercitato una dittatura ben più che ventennale nei nostri licei, Edward Hopper (Newark 1882-New York 1967) è guardato con sufficienza. Merita solo una riga: la metà dello spazio concesso a un pittore modesto come John Marin e un decimo di quello elargito a un pittore politicizzato come Ben Shahn.
Ma Hopper, il maggior artista americano del Novecento, per affermarsi non ha avuto bisogno dei libri di storia con le loro storie. A riscoprirlo nel secondo dopoguerra, quando era completamente dimenticato, sono stati i pittori come Andy Wahrol, i registi come Hitchcock e Wenders, i non-critici, di solito giovani, che tenevano in casa il poster di un suo dipinto senza neanche sapere il suo nome.
Per questo l'antologica che si apre giovedì a Palazzo Reale, fino al 31 gennaio, avrà senz'altro successo, anche se in mostra non c'è nessuno dei suoi più famosi capolavori (dai Fari al Distributore di benzina ai Nottambuli) e nel catalogo non compare nessuno dei suoi maggiori studiosi italiani (da Birolli ad Antonello Negri a Marco Fagioli, per fare solo qualche nome).
Capace di essere insieme realista e irreale, allievo della metafisica di de Chirico e della pittura della «scena quotidiana», Hopper riesce in un'impresa che è riuscita a pochi artisti contemporanei: piacere sia ai conoscitori più raffinati, sia a chi è convinto che il proprio figlio disegni meglio di Picasso.
Con una semplicità enigmatica dipinge un'America contemporanea, ma vagamente fuori moda. Nei suoi quadri non ci sono grattacieli, automobili, fabbriche; non c'è nulla dei ruggenti anni venti e dei meno ruggenti anni trenta. Anziché l'America di Al Capone, del Rockfeller Center e dell'Empire State Building, dipinge binari della ferrovia, passaggi a livello, case coloniche con i loro tetti a triangolo, mansarde vittoriane, fari sulla costa atlantica. Le sue immagini hanno una modernità un po' fuori dal tempo: dunque, un po' classica.
Domina i suoi quadri, poi, una profonda solitudine, che colpisce gli uomini e più ancora le donne (sole in una camera d'albergo, in una casa, sul treno), ma avvolge anche le cose. Eppure non è questo il significato centrale delle sue opere, anzi lui stesso si lamentava che i critici ne parlassero troppo.
Quello che gli interessa, piuttosto, è sottrarre le immagini allo scorrere del tempo. Per questo dipinge un'ora immutabile, che fa pensare ai versi di Mandel'stam: «Che ora è?, gli chiesero i curiosi/ E lui rispose: È l'eternità».
È questo momento metafisico che Hopper vuole rappresentare: quel momento in cui le cose quotidiane, così ovvie, diventano improvvisamente un'immagine del mistero. E lì, tra un cottage e un drugstore, la realtà si rivela parte di qualcosa di più grande, di più sfuggente. A volte, di più doloroso.
Così accade in Gas, 1942, purtroppo presente in mostra solo con un disegno preparatorio. Qui il chiosco di benzina Mobil, con le colonne delle pompe e la dimessa insegna araldica col cavallino alato, diventa un'icona malinconica del «progresso» contemporaneo. L'uomo del ventesimo secolo ha inventato la macchina.

Ma, come i suoi predecessori, non sa da dove viene né dove porta la strada che percorre, e che si perde nelle ombre del bosco.

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