Ma sull'italiano nei negozi il Carroccio sbaglia tutto

Si dice: parla come mangi. Ed è un buon modo di mettere coi piedi per terra chi vuole volare spinto in alto dalla propria cultura. Ma se quello, riportato tra gli umani, interrompe poi il lavoro mattutino per mangiarsi uno snack e a mezzogiorno va a prendere un brunch, verso le sei si trova con gli amici per un happy hour e infine dopocena non si nega un drink? Non si capisce più se è meglio parlare come si mangia oppure rinunciare a parlare come si mangia o, forse, archiviare quel vecchio modo di dire che ci fa soltanto confusione e non restituisce nessuno a modi sobri, non cafoni del comunicare. La Lega si dev’essere interrogata sul problema e, sensibile alle tradizioni popolari, ha pensato che non era il caso di relegare in soffitta, tra le tante cose rottamate dalla globalizzazione, il vecchio detto «parla come mangia». L’inglese è un fenomeno di immigrazione linguistica inarrestabile: ormai ce lo troviamo dappertutto, e se proprio sì vuole conservare quel celebre modo di dire nel suo significato etico-culturale sarebbe meglio pronunciarlo in negativo: non si parli come si mangia. Tuttavia, ha pensato la Lega, passi pure l’inglese, lingua di celebri college e della tecnologia avanzata, ma non l’arabo e il cinese. Le giustificazioni di queste prese di posizione non sono vaghe: rispondono alla volontà politica leghista di contrastare l’immigrazione, di contenere la sua pervasività, di difendere l’identità culturale padana da pericolose contaminazioni. Non è in questa prospettiva che vengono sostenute la conoscenza e la diffusione dei dialetti attraverso precise delibere in materia promulgate da tutte le amministrazioni in cui la Lega ha voce in capitolo? Per analogia, stessa cosa si dica sull’ostracismo alle insegne marocchine e cinesi. Chi si dovrebbe sentire in pericolo se un qualunque Mustafà, in regola con passaporto, permesso di soggiorno, tasse, piazza sopra il suo negozietto l’insegna con la scritta «Kebab»? Supponiamo che i responsabili della Lega si siano convinti delle mie parole e, dunque, che i provvedimenti anti insegne marocchino-cinese in realtà non sono un pericolo per nessuno, non offendono il sentimento padano, non costringono il signor Brambilla a rinunciare al suo amato dialetto lombardo. Però, gli si obietta, offendono il senso estetico. Brutte. Di fronte a una critica tanto perentoria, l’insegnante di estetica si sente messo all’angolo. D’accordo: molte di quelle insegne sono brutte, ma scritte in italiano non diventano certo. Ottima occasione, allora, per migliorare la qualità dell’arredo urbano delle nostre città, in cui le insegne hanno un ruolo importantissimo nella percezione estetica degli spazi e s’incominci pure, per dare l’esempio, a chiedere che quelle dei marocchini e dei cinesi siano belle. Adesso entriamo nelle loro botteghe.

Siete proprio sicuri di volere che il commerciante musulmano vi intrattenga parlando correttamente l’italiano mentre vi rifornite per la prossima estate di un paio di quelle camicie di cotone leggere, a maniche corte, e a quadratini, ottime per attraversare una piazza sotto solleone? Io direi che il musulmano meno ci parla e più ci sentiamo in pace durante la scelta delle camicie.

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