La svedese Volvo diventa ora «made in China»

A ottantadue anni dalla nascita e dopo quasi 16 milioni di automobili prodotte, Volvo Cars cambia ancora padrone. Esce Ford, che aveva acquistato il controllo del ramo automotive del gruppo svedese agli inizi del 1999 per 6,5 miliardi di dollari (battendo anche la concorrenza di Fiat, interessata soprattutto ai camion che Volvo Ab non intendeva cedere), e arriva la cinese Geely, l’ultimo di una lunga serie di pretendenti avvicendatisi nel corso del 2009, che dovrebbe versare nelle casse di Dearborn circa due miliardi di dollari per il 100% del brand svedese.
Un comunicato congiunto annuncia infatti che è stata raggiunta un’intesa su «tutti i termini commerciali sostanziali» della vendita, e che un accordo definitivo sarà firmato entro il 31 di marzo così da concludere la vendita entro il primo semestre 2010. Toccherà agli analisti, una volta resi noti i dettagli dell’operazione, stabilire chi abbia fatto l’affare nella compravendita di una casa che nel decennio trascorso all’ombra dell’Ovale blu non si è mai sensibilmente mossa dalle 400mila vetture l’anno, un risultato lontano dal target di 600mila fissato da Ford per il 2002.
Scontato è l’obiettivo primario di Geely: produrre Volvo in Cina, dove tutti i brand premium europei sono attivi da anni con solide joint-venture. Una possibilità più volte presa in esame a Goteborg e sempre scartata. Non meno importante per i cinesi è l’accesso al formidabile know how che Volvo vanta nel campo della sicurezza, un’area tuttora critica per i costruttori del Paese della Grande Muraglia. Il compito che attende i manager di Pechino non è comunque facile, non tanto per lo stato di salute di Volvo Cars, che nel 2010 potrà contare sull’arrivo della nuova S60, quanto per la difficoltà di gestire il brand svedese che esce da vent’anni piuttosto travagliati. Tutto all’opposto rispetto agli anni ’70 e ’80 durante i quali al timone c’era Pehr G. Gyllenhammar: un monarca assoluto, giunto al comando di Volvo nel 1971, che seppe dare vita a un’autentica public company con quasi 80mila dipendenti che spaziava dalle vetture ai medicinali, dalle macchine da cantiere all’acqua minerale Ramlosa, dai trucks alle turbine aeronautiche e ai motori marini Penta. Furono anni di acquisizioni, fra le quali la divisione auto dell’olandese Daf nel 1972 e di decisive partnership tecniche, come l’esclusiva del motore diesel sei cilindri di Volkswagen.
L’ultima operazione di Gyllenhammar fu il merger deciso in marzo 1991 con la Renault guidata da Raymond Lévy, una fusione che avrebbe portato gli svedesi al controllo dei trucks (una leadership che per Volvo Ab dura ancora oggi e che ha dato vita al secondo gruppo mondiale nei veicoli pesanti) e i francesi al comando nelle autovetture. Un’integrazione fra le gamme indovinata che avrebbe permesso a Renault di non produrre più un’ammiraglia e alla casa di Goteborg di presentarsi con degli affidabili monovolume sul mercato americano nel quale occupava il primo posto fra le auto d’importazione. Il fidanzamento durò però appena due anni, e a romperlo furono gli svedesi in un rigurgito di orgoglio nazionale, convinti, secondo una tradizione consolidata e sempre smentita, di bastare a se stessi.
La storia della Volvo Cars indipendente si chiude agli inizi del 1999, dopo il lancio della S80, la grande ammiraglia incompiuta, non all’altezza dei colossi tedeschi per la mancanza di fondi necessari a rifinirla in modo adeguato.


Anche il capitolo Ford, che si aprì allora sotto il regno dello zar Jac Nasser, non è stato particolarmente esaltante: un esempio per tutti è il Premier Automotive Group in cui Volvo fu inclusa insieme ad Aston Martin, Land Rover e Jaguar, una realtà elitaria che si è dissolta prima ancora di assumere un’identità, il tesoro della corona di Dearborn che oggi non esiste più.

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