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Sveva Casati Modignani: "Dello stile me ne frego"

La scrittrice ha superato i 10 milioni di copie vendute. E con il nuovo romanzo "al maschile" è già record

Sveva Casati Modignani: "Dello stile me ne frego"

L’anno scorso, con il suo ventesimo romanzo, ha sorpassato quota dieci milioni di copie vendute. Con il ventunesimo, invece, Sveva Casati Modignani, o semplicemente “Lady Bestseller”, ha messo a segno un altro colpo memorabile. Ascoltate cos’è accaduto, nell’Italia che non legge e degli editori in crisi: il 2 luglio Mister Gregory sbarca nelle librerie con una tiratura di 160mila copie. È un venerdì. Il mercoledì successivo, quattro giorni dopo, le continue richieste da parte dei librai obbligano l’editore Sperling&Kupfer a mettere in cantiere una ristampa cautelativa di 30mila copie. La scorsa settimana il titolo era terzo nelle classifiche dei più venduti: può darsi che mentre state leggendo queste righe Mister Gregory abbia guadagnato un’altra posizione.

Lady Sveva, ma come si spiega tutto questo successo?
«Rido dentro di me, se lei usa la parola successo. Vuol sapere l’ultima cosa che penso quando mi metto a scrivere un romanzo? “Ecco, ora scrivo un best seller”. Come se uno potesse mettersi lì e scriverlo a tavolino. Non ho ricette per vendere così tanto. Le cose capitano».

Mister Gregory è «capitato»? Il fatto che un uomo sia per la prima volta protagonista di un romanzo di Sveva potrebbe sembrare operazione sorprendente, ma pur sempre di marketing.
«Sì, è “capitato” pure Mister Gregory. Il protagonista era dieci anni che bussava insistentemente alla mia porta, ma non lo lasciavo entrare, perché era un maschio. Sa di cosa parlano due uomini che si incontrano? Di calcio, delle ultime marche di orologi strepitosi che hanno recuperato da qualche parte in Svizzera, dell’ultimo ristorante che hanno scoperto in fondo alla campagna lombarda. Fine. Mi dicevo: ma sarà poi così interessante avere un protagonista uomo? A quale profondità psicologica potrà arrivare? Cosa avrà da dire per tutto il tempo? Non ho pianificato nulla».

Però, evidentemente...
«Mi ha sedotto. Ecco tutto. È stato abilissimo. Un giorno apro la porta ed eccolo lì, bambino, la madre che se n’era andata, il padre scappato in Argentina, e lui abbandonato nel Polesine. Mi è scaturita una sorta di tenerezza materna. Lui ha preso a raccontarmi una avventura dietro l’altra, compreso le asinate che commetteva, e io l’ho ascoltato».

Ed è così che è partita la macchina romanzesca. Oliata alla perfezione da anni di scrittura.
«Ho fatto ricerche, se è questo che vuol dire. Il romanzo è ambientato anche nel mondo dei grandi alberghi. Sono andata da Daniela Bertazzoni, padrona di casa del Grand Hotel et de Milan, e ho cercato di capire come si svolgeva la vita dietro le quinte di quella macchina da guerra che è un grand hotel. Vi sono regole e gerarchie precisissime, oltre che molte figure, tutti laureati, che lavorano per mandare avanti i diversi settori. Sa che le capogovernanti dormono nelle stanze per farne un monitoraggio adeguato? Per non parlare degli aneddoti che si possono raccogliere tra quelle mura. Se un cliente non dà problemi, non è interessante».

L’accusano, però, di raccontare tutto questo in uno stile troppo elementare.
«A un certo punto nel corso di uno dei suoi viaggi in Italia, Stendhal arrivò a Trieste e si accorse di non avere niente da leggere per quella sera. Vorrà dire che scriverò - annota lui stesso nei suoi diari - dal momento che scrivere è pure più divertente che leggere. Quanto allo stile, aggiunge Stendhal, l’ha inventato qualcuno che non aveva niente da dire».

In questo istante Proust sta morendo per la seconda volta.
«Può sembrare un’affermazione feroce per gli esteti, ma io dello stile non mi sono mai preoccupata. Chi fa il mio mestiere, il cantastorie, sente se una frase vien fuori rotonda, se rotola via bene, e questo mi basta. Non ho mai capito, nonostante tutte le dotte disquisizioni intorno ad esso, cosa sia precisamente lo stile».

Lo stile è l’uomo, diceva Lacan.
«Ebbene, io sono una donna. Detto questo, i miei romanzi li concepisco mettendomi in ascolto. Se si ha la presunzione di dire a un proprio personaggio “Ora ti guido io”, il personaggio scappa e se ne va. Lo scrittore deve essere umile davanti ai suoi protagonisti. Quando ho visto per la prima volta il personaggio di Mister Gregory - in realtà conosco da 40 anni la persona che me l’ha ispirato - ho visto un bambino che stava andando a messa con sua nonna, infreddolito nella neve, gli zoccoli e la mantella. Mi sono limitata a seguirlo».

Ma non è tutto troppo sentimentale? E le parole?
«La scrittura viene dopo. Uso una carta particolare, color paglierino, intestata Bice Nullo Cantaroni. L’aveva fatta fare mio marito, compagno di tanti romanzi a quattro mani. Qualche anno fa si era esaurita. L’ho fatta rifare. Non sto seduta alla macchina da scrivere mai per più di un quarto d’ora. Mi alzo in continuazione, faccio il caffè, litigo col cane. In un giorno non scrivo mai più di tre ore complessive.

Mi ripeto sempre: questa storia così bella che ho cresciuto dentro di me devo rovinarla scrivendola? Poi, in realtà, mi accorgo che mettendola sulla pagina avevo pensato a una cosa che non poteva funzionare, avevo commesso un errore di immaginazione. La scrittura serve solo a questo: a perfezionare la fantasia».

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