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La svolta del «Manifesto»: da Marx alla D’Addario

IN PICCHIATA Che brutto colpo per i lettori abituati a reportage e analisi su Cina e Cuba

La svolta del «Manifesto»: da Marx alla D’Addario

RomaChe fosse ridotto male, acciaccato e pieno di guai, era noto da tempo. In verità ha sempre vissuto sul pelo - nel senso del filo beninteso, honni soit qui mal y pense - e con la canna dell’ossigeno a portata di mano, sin da quando è nato ormai quarant’anni fa. Del resto, che volete... Son crollati muri e paradisi, son morti dei e profeti, volete che splenda di salute proprio il giornale che ha fatto del documento più famoso di Marx ed Engels la sua testata, e si fregia ancora dell’etichetta «quotidiano comunista»? Però nessuno immaginava che il glorioso Manifesto, tornato sotto l’autorevole direzione del pluridecorato Valentino Parlato, finisse improvvisamente e clamorosamente a puttane.
Non nel senso metaforico, beninteso: il Manifesto è ancora vivo e lotta insieme a noi, gli aficionados continuano a trovarlo in edicola pur se soffocato ormai da una pletora di quotidiani comunisti, post o vetero: Liberazione, l’Altro, l’Unità, Il Riformista, e Repubblica che li sovrasta tutti. Dicevamo che è finito a puttane, nell’accezione concreta ed etimologica del termine. Ed anche se ormai quella parola è desueta, il «politicamente corretto» impone non udente al posto di sordo, operatore ecologico invece di spazzino, la realtà non cambia. Se preferite dunque, diciamo che il Manifesto è finito ad escort. Sparandosi due pagine intere due - oltretutto le più importanti dopo la vetrina di un giornale - per una megaintervista a Patrizia D’Addario. Nel numero di ieri, al prezzo di vendita di euro 2,60 per l’abbinamento con Le Monde diplomatique. Ma non crederete mica che il piatto forte fosse il supplemento d’Oltralpe... Via, la bomba che ha lasciato senza fiato i lettori stava in quei due paginoni della escort, intervistata da una firma di punta del Manifesto.
Voi che non avete mai avuto soggezione dell’intellighentia di sinistra, non frequentate le terrazze romane e v’annoiate quando vi imbandiscono lunghe, complicate e rarefatte analisi, certamente vi fermate al primo e più terragno interrogativo: ma questi scoprono la D’Addario soltanto adesso? E che altro avrà ancora da rivelare la ciarliera e intraprendente ragazza? Bell’esempio dello «stare sulla notizia»! Certamente avete ragione, ma il problema è che un tale scoop non lo ha fatto la Gazzetta di Peretola o un giornale «normale», bensì il prototipo nostrano del quotidiano che «vola alto», la maestrina dalla penna rossa (o la mosca cocchiera, se preferite) della sinistra nostrana dal Sessantotto fino a ieri, il foglio (con la effe minuscola) che ambiva al ruolo di prima lettura mattutina per ogni intellettuale verace e riconosciuto da sinistra a destra.
Signora mia, come siam caduti in basso. Dai reportage sulla Cina, la realtà di Cuba vista da sinistra, il dissenso di ieri e di oggi in Russia, il malcontento operaio nelle grandi fabbriche del Nord e del Sud, alla sciagurata - nell’accezione manzoniana, beninteso - di Tarantini. Ma non ha insegnato nulla a quelli del Manifesto e in particolare a Parlato, lo scivolone del Riformista? Anche Antonio Polito s’era lanciato a pubblicare le memorie pecorecce dell’amante di un ministro in carica. Facendo la gioia degli addetti ai lavori, che si sono scatenati nella facile caccia per individuare l’onorevole tapino. Ma suscitando le ire dei suoi lettori che lo hanno subissato di proteste: oh, compriamo ’sto giornale per leggere cose serie, se volevamo storie di pelo (nell’accezione umana) c’erano già Le Ore o Repubblica.
L’intervistatrice però è giornalista in gamba e intelligente, di sane esperienze femministe. Poiché a metà dell’intervista Patrizia precisa di aver smesso di «lavorare», lei la incalza domandandole se lavorava «per il piacere maschile, per il tuo piacere, per i soldi, per i soldi e il piacere, per i soldi contro il piacere?». E come volete che risponda, la poverina? Avete indovinato: «Io non ho mai provato nessun piacere a fare la escort. Proprio no». Quelli di Repubblica dovrebbero chiedere aiuto al Manifesto, per il tormentone delle 10 domande 10.


Ma non era il Manifesto, che si scandalizzava e scriveva commenti indignati, quando al congresso radicale arrivavano Carla e Pia, le rappresentanti delle lucciole di Pordenone, che fiere di fare le puttane rivendicavano diritti e rispetto? Non era questo, il fiore all’occhiello della libera e nobile stampa, per il quale i giornalisti italiani versavano 1/26 della loro busta paga? Quello che ciclicamente faceva sottoscrizioni e numeri a 50mila lire perché non si spegnesse il faretto della diversità? Il giornale che ha sfornato professorini e maestri di pensiero andati a inseminare l’intero arco costituzionale dell’editoria, da Lucia Annunziata a Gianni Riotta e Riccardo Barenghi? Ridotti a megafonare la «sfida di Patrizia» al premier «sulle loro vicende, sulle sue tecniche di seduzione, sullo scambio tra sesso e potere» e, udite, udite, «sul rapporto fra uomini e donne». E va bene che ognuno è obbligato a rincorrere i suoi guai, ma un whisky al Roxy Bar non era meglio della pozza di san Patrizia?

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