La svolta radicale della narrativa

Due romanzi recentissimi sono segnali d’una svolta radicale che sta avvenendo nella narrativa italiana contemporanea. Le stagioni dell’acqua di Laura Bosio (Longanesi 2007, pagg. 264, euro 16,90) è un robusto campione della tradizione (della conservazione?), nutrito quale esso è d’un impegno linguistico fondato sulla correttezza, sull’ordine e la trasparenza, anche se capace a volte d’una violenza espressiva che stupisce in una scrittrice così fedele a valori antichi da condividere con quanti siano disposti anche a fare rinunzie pur di non tradirli; si tratta di una saga familiare di grande ricchezza espressiva, che si svolge sullo sfondo allucinante delle acque delle risaie. I compagni del fuoco, di Ernesto Aloia (Rizzoli, 2007, pagg. 391, euro 18) è invece, dopo alcuni inserti didascalici di patalogia umana e di politica guerresca forse troppo protratti, l’esplosione drammatica ma anche beffarda d’uno stile travolgente, a volte disarticolato e velocissimo nei suoi snodi affabulatori che coinvolgono il lettore con una girandola di eventi, anche minimi, ma come determinati e dilatati da un soffio che spazza via l’angustia provinciale e furbesca da cui è ancora inficiata tanta nostra narrativa di giovinette e giovanotti poco più che alfabetizzati, ma dediti al proprio corrivo turpiloquio o a un’apparente essenzialità di dettato che è solo il velo di una penosa elementarità di idee e di mezzi espressivi: la vicenda è qui tutta incentrata su conflitti dialettici ma anche fisici fra gruppi di contestazione reciproca sul terreno delle civiltà, degli obiettivi, delle religioni. Il fatto è che il prepotente estendersi dell’informatica e della discutibile ma forse inevitabile globalizzazione hanno investito anche la letteratura, conferendole la necessità oggettiva di un linguaggio insistentemente gergale e a volte ermetico, ma che obbliga a prenderne atto come d’un nuovo esperanto plurilinguistico e di una vastità di orizzonti ideali, ma anche geografici e multietnici, sconosciuti finora ad autori avvezzi a calpestare e zappettare il loro orticello con feste paesane, fuochi d’artificio, maiali allegramente ammazzati, sordide traversie familiari e sessuali, giovanilismo d’accatto ed epiloghi accattivanti da trash televisivo che possono talvolta trasformare un maldestro scartafaccio in uno di quei melensi o indigesti bestseller vagheggiati da alcuni editori con l'aiuto di non pochi critici compiacenti. Il primo impulso a questa svolta, l’ha dato Giuseppe Genna con i suoi due ultimi libri, Anno luce (Tropea), e soprattutto Dies irae (Rizzoli). Ma recentemene una nuova e decisiva virata è stata impressa alla narrativa nel suo complesso dal libro Breve storia di lunghi tradimenti di Tullio Avoledo (Einaudi, 2007, pagg.390, euro 16,50), vicenda di trasformazione di una banca in finanziaria internazionale e al suo interno il contrastato amore di una giovane donna in carriera e di un suo collega divenuto suo dipendente, smarrito ma renitente ai troppo radicali e spietati mutamenti. Ora, se la tradizione vuole continuare ai livelli che le sono propri e di cui essa è pienamente degna, deve «mostrare i muscoli», cioè giovarsi di una cultura non d’accatto, una capacità di allargare gli orizzonti della sua visione e della sua analisi.

Da parte loro i «novatori» devono non strafare, cioè non dimenticare che ragione del pubblicare libri è la volontà e necessità di comunicare, e anche di far capire il senso e i valori non solo letterari della loro attuale sperimentazione, che non assomigli cioè ai vecchi sperimentalismi, i quali hanno ormai svolto la loro funzione e in fondo sono diventati anch’essi tradizione.

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