La Tamaro? Coltiva cultura liberale

H o grande simpatia per i libri dell'Istituto Bruno Leoni, anche se devo confessare che il loro liberalismo, almeno ultimamente, combatte tra la cristallina intransigenza degli austriaci e l'opposta accondiscendenza snobistica degli eredi dell'azionismo torinese. Sono abbastanza sicuro che il liberalismo, che d'altronde non è un set di principi ideologici, di molti degli autori di Noi e Lo Stato non corrisponda a quello di chi scrive questa rubrica. Ricordo ancora quei gaglioffi di sedicenti liberali, dal manettaro frustrato Enzo Marzo o al fenomeno gnegne Massimo Teodori (così vicino al nostro Giornale quando lo pagava e così ostile oggi), pronti a dare lezioncine di liberalismo a tutti, dal loro palco rasoterra. Li ricordo scrivere che il sottoscritto metteva «nel ventilatore schizzi di merda» e chiedere la mia radiazione dall'inutile ordine dei giornalisti. E questi sarebbero i liberali. Per ciò evito ogni strana lista di purezza liberale. In fondo si potrebbe applicare un principio pragmatico: è liberale chiunque si senta tale. Anche se come non condividere ciò che scrive Alberto Mingardi, riguardo, all'incredibile (nel senso etimologico del termine) liberalismo riscoperto di Carlo Calenda. Ma arriviamo al dunque. E al libro Noi e Lo Stato a cura di Serena Sileoni. La prefazione è molto interessante e ci spiega come il libro sia il sequel del bellissimo Sudditi, curato da un ex comunista canosino come Nicola Rossi. Diversi i contributi racchiusi in capitoli. Interessanti quelli sulla burocrazia di Vitalba Azzolini e Celotto, come sempre ben fatti i rilievi di Manuel Seri sull'oppressione fiscale e sulla sua giusta fissazione: la costante inversione dell'onere della prova in materia tributaria. Ma la parte che più mi ha colpito è quella di Susanna Tamaro. La scrittrice, che erroneamente non avreste annoverato in un ideale pantheon liberale, parla della sua esperienza di agricoltore (produce un ottimo miele, ma non lo dice) e della sconfortante legislazione e attitudine giuslavoristica a cui sono sottoposti i coltivatori. Si tratta di una favolosa lezione di economia rurale. Vale più di un trattato. È la declinazione sul campo, verrebbe proprio la voglia di dire, del metodo liberale: del conoscere per deliberare.

Ci racconta non solo le storture di un sistema iperburocratizzato, ipernormato e ipertassato, ma anche di un pregiudizio nei confronti della libertà di intrapresa. Nei confronti di quella primaria, originaria e nobile della coltivazione della terra. Da leggere.

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