Tanta musica contro le regole del buon senso

Edith Grove, Londra, una casa fatiscente, pareti coperte di muffa, il gelo blocca i tubi, il cesso non funziona e si orina nelle bottiglie. Brian Jones e Keith Richards suonano la chitarra, sequenze di note ruvide, scabre e piene di inquietanti sottintesi. Mick Jagger guarda in disparte... Ma poi arrivano i primi concerti, dimenticati da tutti, in sordidi pub di Ealing e dintorni dove suonano i blues di Muddy Waters a modo loro, un suono stridulo che manda all’aria le regole del buon senso. Infatti la parola d’ordine ai loro concerti è «violenza»; violenza della musica, violenza tra il pubblico (insulti tra la band e i fan e viceversa) e la scena è sempre la stessa: rissa tra puzza di fumo e sudore che s’innesca nel club e si perpetua nel freddo della strada. È così che la multinazionale Rolling Stones s’è guadagnata i galloni di miglior r’n’r band del mondo. Jagger lo porta scritto nella sua sensualità animalesca anche se si traveste da borghese; Keith Richards nelle rovinose rughe del suo volto anche se fa la pubblicità di Louis Vuitton. E lì a dimostrarlo c’è la loro musica: tre accordi semplici, declinati mille volte in mille modi diversi, dissonanti, con grovigli di note spaiate. È il segreto senza tempo che emerge dai primi dischi dei Rolling e arriva fino ad oggi. Gli album storici partono dalla ruvida anarchia di Rolling Stones e R S n.2 del ’64 ’65, violenta scarica di cover tratta dalla tradizione americana come Come On di Chuck Berry o Suzie Q di Dale Hawkins. Lì ci sono le basi (quasi) mai dimenticate, che prendono forma nel successivo Out of Our Heads con le prime composizioni di Jagger e Richards, e scusate se Satisfaction o I’m Alright non sono poca cosa. L’anima creativa è ancora Brian Jones e il primo capolavoro (con lui che maneggia il sitar) è Aftermath con classici come Paint It Black, Lady Jane, Under My Thumb. Nel ’66 i Beatles «sparano» gli esperimenti di Revolver, Dylan va sull’elettrico Blonde on Blonde e i Rolling esplorano nuovi orizzonti con Beetween the Buttons, album di transizione ma che, nella versione americana contiene il singolo Ruby Tuesday/Let’s Spend the Night Together. I ’60 si chiudono con i capolavori Beggar’s Banquet (su tutte Sympathy For the Devil e Street Fighting Man) e Let It Bleed, con la carica di Gimme Shelter e il ritorno al blues delle radici dopo la morte di Jones, che qui suona in soli due pezzi. Arriva Mick Taylor e con lui Sticky Fingers che, con la graffiante energia di Brown Sugar (uno dei riff più celebri del rock), Wild Horses e Sister Morphine vola in vetta alle classifiche.
Poi i Rolling continuano a dar lezione di stile, ma il periodo storico si chiude con Exile (settimo nella classifica di Rolling Stone fra gli album migliori di tutti i tempi).

Ma anche Black and Blue è un ottimo disco «nero», Some Girls vende come ai tempi d’oro, Tattoo You con la energica semplicità di Start Me Up è al numero 211 della citata classifica di Rolling Stone e ancora oggi, nei concerti e nei cd, seppur supermiliardari, hanno quel suono crudo, da vesciche alle dita, di chi fa rock col corpo e non con la mente, di chi sa scrivere canzoni di protesta e canzoni ribalde, canzoni sballate e canzoni d’amore (dove vogliamo metterla Angie?, che salva un disco non memorabile come Goats Head Soup del ’73), che poche giovani band possono vantare.

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