Tanti fallimenti e un’identità smarrita in tutta l’Europa

Ci voleva un guru come Bernard-Henri Levy, socialista da sempre e già grande sostenitore di Ségolène Royal per dire, papale papale, quello che molti pensavano da tempo e in modo particolare dopo la disfatta nelle ultime europee: il Partito socialista francese è una «cosa morta da dissolvere» e a «cui bisogna cambiare nome al più presto in modo da finirla con questa macchina per sconfitte». Levy non specifica quale nome vuol dare al nuovo partito, né con chi si dovrebbe alleare per non restare perennemente minoritario, né quale ideologia dovrebbe adottare al posto di quella che egli stesso sembra considerare defunta.
Nella sua furia di piantare il chiodo nella bara del glorioso Psf, ha anche tralasciato tre cose fondamentali: primo, che la crisi del partito, recentemente accentuata dalle divisioni interne, è cominciata molto tempo fa e ha conosciuto momenti ancora più dolorosi dell'attuale, come quando Lionel Jospin fu eliminato al primo turno delle elezioni presidenziali da Le Pen e i suoi seguaci furono costretti, volenti o nolenti, a votare per il gollista Chirac nel ballottaggio; secondo, che una operazione di trasformismo simile a quella che lui suggerisce alla nuova segretaria Martine Aubry è già stata tentata in Italia, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, con la fondazione del Partito democratico; terzo, e più grave, che se il Psf è ridotto nelle condizioni di non impensierire più un Sarkozy, che pure ha la sua bella dose di guai, il socialismo è al tramonto in tutta Europa.
Basta guardarsi in giro nella Ue per costatarlo. In Gran Bretagna, dove hanno governato per undici anni, i laburisti stanno passando da una sconfitta all'altra nelle elezioni locali e sembrano destinati a subire, nelle politiche dell'anno venturo, una delle peggiori disfatte della loro storia. In Spagna, Zapatero ha perso le europee e resta al potere soltanto perché le elezioni sono ancora lontane. In Germania, la cristiano-democratica Angela Merkel è superfavorita nella imminente corsa alla Cancelleria e non vede l'ora di mettere fine all'attuale "grande coalizione" con i socialdemocratici, che saranno così ricacciati all'opposizione dopo dodici anni di governo. La Svezia, tradizionale feudo della socialdemocrazia, è ormai saldamente nelle mani di una coalizione di partiti borghesi. Né le cose vanno meglio per le sinistre, che si chiamino socialiste o no, nella cosiddetta nuova Europa: dai Paesi baltici alla Polonia, dalla Cechia alla Bulgaria, dove le elezioni si sono svolte appena due settimane fa, il colore dominante è in questo momento il blu del centrodestra.
Per evitare il tramonto, alcuni partiti socialisti hanno cercato di travestirsi e adottare politiche che hanno poco a che fare con i sacri principi. Ricordiamo solo l'operazione "New Labour" di Tony Blair, che per convincere gli elettori non esitò a mantenere in vigore le riforme della Thatcher, o il tentativo di rivedere il "modello renano" tentato nel suo secondo mandato da Gerhard Schröder. Una delle ragioni del disastro del Psf è stato proprio quello di non avere mai tentato di adattarsi ai nuovi tempi e di rinnovare i suoi programmi, lasciando a Sarkozy tutto lo spazio per allargarsi a sinistra e perfino di cooptare alcuni dei suoi uomini migliori.


A giudicare dalle parole che nella sua intervista ha riservato al presidente, Levy non sembra per ora avere intenzione di seguirli, ma viste le scarse possibilità che il suo appello abbia un seguito, forse dovrà rassegnarsi; e tutto sommato, per Sarko sarebbe un altro bell'acquisto.

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