Il Tar taglia i pedaggi ma scavalca la legge. E danneggia il Paese

La decisione, pur popolare, crea incertezza e mette in fuga gli investitori stranier

Il plauso alle decisioni del Tar e del Consiglio di Stato che hanno annullato l’aumento dei pedaggi autostradali stabilito dal governo è stato bipartisan. Oltre alle scontate posizioni dell’opposizione, al coro dei plaudenti si sono aggiunti anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e la governatrice del Lazio, Renata Polverini, del Pdl, che strizzando l’occhio ai propri elettori, hanno condiviso la sentenza. Ebbene, pagare pedaggi ancora più esosi non piace a nessuno, ma non accorgersi dell’assurdità e del pericolo di quanto avvenuto è gravissimo.
Gli amministratori locali si comportano come chi, ritrovandosi in casa un perfetto estraneo che gli prepari il caffè, se ne compiaccia perché è proprio zuccherato al punto giusto, senza porsi il problema del fatto che ci sia un tizio dove non ci dovrebbero essere altri che i propri familiari. É altresì paradossale che la voce più forte che si è levata contro quanto è accaduto sia proprio quella di un leghista, il viceministro Roberto Castelli, costretto a stigmatizzare una vittoria delle autonomie contro una decisione dello Stato centrale.
Chiariamo bene cosa c’è che non va e perché dovremmo preoccuparci di una decisione che, per una volta, piace a tutti. Il Tribunale amministrativo regionale (e in seconda istanza il Consiglio di Stato) dovrebbe vigilare sulla correttezza della Pubblica amministrazione e, come tale, tutelare il cittadino contro atti che si ritengono illegittimi, quali una concessione negata nonostante la presenza di tutti i requisiti o al limite persino una bocciatura immotivata a scuola. Molto diverso è invece sindacare sull’opportunità o meno delle leggi o degli atti del Governo, per i quali c’è il giudizio degli elettori o, nel caso, la Corte Costituzionale. Se un tribunale vuole legiferare, allora deve anche essere eletto, altrimenti siamo al secondo stadio del passaggio del potere dai cittadini alle magistrature. Tralasciamo gli aspetti comici di un provvedimento che viene giudicato scorretto solo «nei limiti spaziali (sic!) degli enti che hanno proposto ricorso» (ma come? O è corretto o non lo è, da quando un atto è sbagliato solo per chi protesta?) e tralasciamo anche i mal di pancia leghisti che hanno potuto toccare un’altra volta con mano che gli aumenti valgono sempre per Milano e mai per Roma. Ci saranno di sicuro enne articoli e precedenti che giustificheranno la decisione ma il punto cruciale è che in Italia non si sa più da un pezzo chi comanda, e la qual cosa spiega perché sia velleitario convincere un qualsiasi investitore estero a puntare sul nostro Paese.
Ci si lamenta (giustamente) per la mancanza da mesi di un ministro titolare dello Sviluppo economico ma, anche se ci fosse, come si fa a spiegare a un imprenditore idealista, che volesse nonostante tutto impiantare una fabbrica in Italia, che le promesse e i decreti del ministro potrebbero non valer nulla perché magari il Tar (che tra l’altro in inglese significa catrame e suona male) si sveglia di cattivo umore? Tanto varrebbe trattare direttamente con i giudici amministrativi. Come se non bastassero a complicare il quadro le sentenze invasive dei magistrati del lavoro (Sergio Marchionne ne sa qualcosa) e della magistratura ordinaria, dove un giudice di primo grado può appioppare penali da settecentocinquanta milioni «a occhio», senza nemmeno provare a chiedere una perizia.
Attenzione perché la china è pericolosa.

L’attività (e la responsabilità) esecutiva e legislativa deve stare nel Governo e nel Parlamento: se i vari Tribunali eccedono in fantasia nelle loro decisioni, piuttosto si producano interpretazioni autentiche delle leggi che non lascino spazio a dubbi, ma l’economia non tollera incertezze e non c’è niente di più incerto dell’attendere per anni il parere di un giudice, che non ha alcuna responsabilità o conseguenza per le sue decisioni, anche se palesemente errate o abnormi.

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