È moda recente, la Puglia, lo zoccolo dello Stivale che ha sempre fatto meridione a sé. Il Salento tira turismo sulle corde della pizzica e i tamburi della Taranta e lo sprofonda nel languore degli ulivi a Gallipoli o a Ugento, la fiction abatantuoniana de Il giudice Mastrangelo e La seconda notte di nozze di Pupi Avati magnificano il masseria style che fa impazzire i britannici e La terra nei tufi e le colline di Sergio Rubini (dopo lo splendido Tutto l'amore che c'è). E i trulli della Valle d'Itria, la globalizzazione dell'orecchietta, l'olio andriese, la riscoperta di quelle fave&cicoria che prima irrachitivano e adesso sprigionano un celebrato potere nutrizionale, persino gli sberleffi fuggi-da-Foggia di Pulsatilla.
Ma la Puglia, si sa, sta solo a Castel del Monte ed è scomparso con il puer Apuliae. Se si toglie il Salento e il suo dialetto cantilenato e sicilianeggiante, e l'ibrido napoletanoide del Tavoliere, a spartirsi la pugliesità restano Bari e Taranto. Tolto che a Bari per dire stupido si dice «stodico» e a Taranto «stuedico» nella medesima condivisione di una sorda gutturalità, che la ferrovia Bari-Taranto ha un solo binario e sicché sei stai su un treno regionale sverni a Gioia del Colle per aspettare che passi il pendolino, che a Bari ci sono le cozze tarentine e gli studenti tarentini e a Taranto le scritte «Bari merda» e a Taranto dopo la Prima guerra mondiale hanno vinto a cazzotti il monumento alla Vittoria, le forme di reciprocità tra le due città non vanno troppo oltre: una tutta protesa a levante e a salire su per l'Adriatico, l'altra inchiavardata nel golfo eponimo. Cioè Bari tutta aperta, la Feltrinelli a due piani, la vivacità del commercio borghese, e Taranto tutta chiusa, i commercianti strozzati dalla fine della leva obbligatoria che gli ha sottratto avieri e marinai, il deserto della società civile.
A Bari c'è il figliol prodigo Antonio Cassano e le scorribande di malavita a Bari vecchia, ma la vecchia cultura resiste e arriva pure quella nuova, il pensiero meridiano di Franco Cassano e il conservatorismo canicolare di Marcello Veneziani, l'Istituto Gramsci, le sceneggiature di Andrea Piva e i romanzi di Gianfranco Carofiglio. A Taranto che c'è? Taranto è un grattacapo della storia italiana a cui nessuno s'è ancora sforzato di trovare, prima che una semplice soluzione, anzitutto una forma. Eppure parliamo di una città che per decenni è stato un caso, anzi il primo e ultimo caso di sviluppo a tappe forzate di una città meridionale, riconversione totale di un territorio alle esigenze della grande industria e impressionante ciclo di mobilità geografica e sociale che ha travasato nelle acciaierie, negli altoforni e nei tubifici migliaia di persone arrivate dall'entroterra e dalle campagne di tutto il sud Italia. Dell'epoca formidabile a cavallo tra i Sessanta e i Settanta della Detroit sullo Jonio, della città a piena occupazione non è rimasto alcun poema. Perché Taranto, a differenza di altre città del miracolo industriale italiano, non ha mai trovato cantori neppure tra la sua gente (denigratori a costo zero, quelli sì, quanti ne volete).
Quindici anni fa i giornalisti accorrevano a narrare lo scannatoio dei regolamenti di conti della malavita, oggi le centinaia di milioni di euro del dissesto comunale e gli indicatori che ne fanno la penultima città italiana animano dibattiti e documentari televisivi. E la conseguenza, come confida il direttore del Corriere del giorno Tonino Biella, la si è vista a Capodanno: meno feriti per i botti ma più lampioni sfasciati per sfregio «perché se l'amministrazione ruba io almeno rompo», la sensazione di cupio dissolvi si sta impadronendo di un'intera città. Arrivare a Natale, trovando migliaia di persone indaffarate a saccheggiare negozi e passeggiare sul lungomare sfoggiando l'immortale eleganza di provincia regala il sapore di un'altra visione. Provvisoria, se leggiamo in contemporanea - e questa è già una notizia - due recenti libri che hanno proprio Taranto come luogo narrativo.
A dire il vero, Terroni (Sartorio) di Giancarlo de Cataldo, l'autore di Romanzo criminale, è la ristampa di un viaggio di una decina d'anni fa a Poisonville, come l'autore definisce la sua città natale che a quei tempi s'era consegnata, per disperazione o per entusiasmo o per tutte e due, alle amorevoli cure di Giancarlo Cito, il tele-sindaco che resterà un unicum nella storia politica italiana.
Della Taranto citiana riparlerà nei prossimi mesi il tarentino ibrido (è di Martina Franca) Mario Desiati in un libro in uscita per Mondadori. Il cruccio di De Cataldo, un passato di sinistra (curiose le pagine sui trascorsi in Lotta continua del Messicano, il più famoso delinquente sfornato da queste parti) e di giudice in Magistratura democratica, è il disprezzo da coté progressista riversato su quella borghesia che si è consegnata nella mani di Cito, una storia finita malissimo che ha sotterrato l'ansia di riscatto cittadino e ha lasciato nella tarentinità il solo «sentimento di estraneità al mondo esterno che si traduce in rivalsa, difesa, chiusura».
È un quadro piuttosto cupo ma a conti fatti veritiero, che lascia poco spazio alla retorica dei sentimenti dell'origine dell'«espatriato» e alle possibilità di redenzione di una classe dirigente assalita dallo scirocco, incapace di rigenerarsi, che si rinchiude nelle spiagge private per sfuggire al contatto col «popolo». C'è poco da assolvere a Poisonville. Si salvano solo l'anziano zio antifascista di paese, la nostalgia per i guappi sostituiti dalla nuova malavita sanguinaria così diversa dai ricordi di strada di un Pino Rigido. Si salvano pure le gite - guarda caso - nel Salento, dai leccesi gentili e dilapidatori come ogni nobile arcaicità, i poppiti che i tarentini odiano e invidiano al tempo stesso.
Poppiti a parte, un tarentino ha quattro ossessioni: il siderurgico, le cozze, la processione della settimana Santa e il Taranto calcio. De Cataldo, trapiantato da tempo altrove, delle quattro conserva solo la prima, il siderurgico che per Taranto ha forgiato un destino tutto particolare in cui «la città e la fabbrica, pur non amandosi, sono costrette a restare unite» perché sanno ormai di essersi fuse come un tecnodroide di carne e acciaio. Quando Edoardo Winspeare vi ha ambientato Il miracolo (2003) finalmente la fotografia cinematografica ha scoperto la lancinante bellezza di una città dove i due mari, il mar Grande e la laguna del mar Piccolo, le viuzze dell'isola del centro storico e il mare - notava Francesco Troiano - «stridentemente coesistono con i fumi di un gigantesco impianto siderurgico».
Delle altre tre ossessioni si occupa invece, con uno stile più scanzonato, Cosimo Argentina in Nud'e cruda (Effigie). Il sottotitolo «Taranto mon amour», rispetto alla città velenosa e avvelenata di de Cataldo, racconta un'altra storia, più serena, quella dell'emigrato in Brianza che ogni tanto fa ritorno a casa con la bonomia del figlio ripudiato che, a conti fatti, sa comprendere la povera matrigna. E della città «di polpa e tufo» Argentina fa un prezioso dizionarietto, che dovrebbe leggere chi lega Taranto solo ai tristi sessanta giorni del «Car». C'è posto per la città vecchia vista dal mare che «è mare essa stessa» quando i pescatori bruciano incenso per propiziarsi gli dei della pesca, gli anfratti più osceni delle favelas fuori città e gli inaspettati angoli californiani delle ville benestanti, l'apoteosi del calcio e della sua tifoseria rossoblù «mai doma», il borgo tramutato in «un immenso suk extralusso», le donne del popolo «che ti mangiano la faccia senza il timore di svergognarsi» nel dono della loro sensualità selvaggia, le figure antiche dei mestieri e i tarentini stessi, con sangue greco, turco e normanno nelle vene: «Come reazione alla contaminazione di incroci e di razze, si sono trasformati in una tribù».
Condannata a giocare perennemente fuori casa. Come il pescatore che spiega al mercato Fadini perché a Taranto le tracce di extracomunitari sono scarse: «Ce cinise e cinise. Mì, aqquà sime tutte cinise». Ma che cinesi e cinesi.
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