TAWFIK Dove l’orrore è di famiglia

Irak: uno, dieci, cento morti al giorno, uno più uno meno. Cadaveri decapitati, corpi maciullati dalle bombe e abbandonati sui cigli delle strade. La mano di un bimbo staccata e lanciata lontano dal corpo, reso irriconoscibile dalle schegge: è una mano aperta come per implorare pietà da un cielo oscurato dalla malvagità umana. Sono le cronache strazianti di un mondo in disfacimento, in un Irak che sta vivendo la più grande tragedia della propria storia, attraversato da epidemie, fame e siccità che si sommano alle faide intestine, gli scontri fratricidi, il terrorismo internazionale e la guerra di Al Qaida contro gli Usa.
L’ultimo libro di Younis Tawfik (Il profugo, Bompiani, pagg. 260; euro 16) è un urlo che lacera il silenzio di chi impotente osserva; un pugno nello stomaco ma anche una denuncia e uno spunto di riflessione, compito che la letteratura dovrebbe assolvere. Nato nel 1957 a Mosul (l’antica Ninive), lo scrittore iracheno si è trasferito nel 1979 in Italia lasciandosi alle spalle l’inferno di un regime. Oggi vive a Torino con la moglie e la piccola Rima, a cui ha dedicato questo suo ultimo libro, un romanzo potente che alterna il linguaggio crudo e disincantato del giornalista a quello intenso e struggente del poeta, capace di cogliere le sfumature più nascoste dell’animo umano. È la storia della sua famiglia e di tutto quello che ha passato, a tratti romanzata e dilatata nella realtà, ma sempre maledettamente vera, dove tu lettore e uomo comune, una volta giunto alla fine, rimani con la consapevolezza di essere nato nel posto giusto e al momento giusto; e ringrazi Iddio di vivere in democrazia, di poterti alzare tutte le mattine e comperare i giornali che vuoi, andare dove meglio credi e soprattutto dire ciò che pensi senza rischiare di essere ammazzato o marcire in galera.
Estate del 1979. L’ombra del dittatore si estende sull’Irak. Un giovane sogna l’Occidente dove vive il fratello maggiore, esule in Europa e oppositore del regime. Il romanzo si snoda lungo il tracciato di un’epopea familiare, dove una serie di io narranti si alternano per raccontare la stessa realtà: un padre disilluso nella fede politica, una madre coraggiosa che tiene le fila di una famiglia numerosa e lacerata dalla dittatura di Saddam che, insinuandosi ovunque, riesce a spezzare amori e amicizie, mettere padri contro figli e parenti contro parenti. C’è il Testacalda che ammazza il fratello in nome del dittatore e di un falso credo; c’è chi tradisce, chi spia, chi omette, chi tace e chi denuncia un membro della propria famiglia per paura che si opponga al regime; esplodono guerre intestine, faide, delazioni, soprusi e malintesi; gli angeli diventano diavoli e viceversa in un déjà vu di tragedie europee protagoniste di un Secolo Breve.
Ma fra le bombe, i fucili, i mitra e le pistole, si trova anche il tempo per amare, impegnarsi civilmente, sognare e sperare. E poi c’è anche chi riesce a fuggire in modo rocambolesco da quel delirio umano. E tu lettore a quel punto tiri un sospiro di sollievo e credi che finalmente sia finita. Ma poi c’è il poi, il dopo, la nuova vita dell’esule che è riuscito a raggiungere la meta, l’Eldorado, il mitico Occidente, «là dove sorge il sole»: il profugo è sano e salvo, evviva, happy end. Ma forse non è proprio così: il miracolato deve iniziare da capo, partire da zero e dimenticarsi ciò che è stato fino a quel momento, a volte la sua stessa identità. Deve comprendere, adeguarsi, inserirsi in un nuovo mondo che a sua volta stenta a capirlo. Finisce nel calderone di quelli che oggi vengono chiamati immigrati, ma lui non è qui per questioni economiche; è qui perché è fuggito da un luogo dove i diritti umani sono perennemente calpestati, dove la vita stessa ogni giorno è da considerare un lusso, un dono divino. È venuto qui perché non può più stare là, micro-dettagli che fanno la differenza.
Ma l’Occidente se vuole sa essere ottuso e fa confusione: immigrato, extracomunitario, irregolare, rifugiato politico, clandestino, tutti considerati alla stessa stregua. Poco importa se hanno storie, destini, motivazioni e aspettative diverse.

«Scrivo per sentirmi vivo, per esorcizzare la nostalgia e per non morire», ha detto un giorno Tawfik, il quale, nonostante il difficile percorso della sua esistenza, continua ad amare l’Italia che considera una seconda patria e a credere che la vita possa essere inaspettatamente generosa e bella. Come la sua piccola Rima a cui dedica i primi versi del libro: «Alla mia Rima/ nata libera/ nel dolce poema della vita».
m.gersony@tin.it

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