Cronaca locale

Taylor, all’inferno e ritorno per il mito della West Coast

Sul suo volto sereno gli occhi che guardano lontano riflettono una vita di grandi sofferenze. Ma lui ha superato ogni ostacolo, ha vinto il dolore, la droga con la forza dell’uomo quieto e pacato in un mondo che grida. James Taylor, cantautore colto che ha fatto la storia della West Coast guardando sempre avanti, lunedì proporrà le sue ballate in un prezioso concerto all’Arena (ore 21) per il «Milano Jazzin’ Festival». Quarant’anni e passa di successi ed è cambiato soltanto il look. Lo ricordiamo sulla copertina dell’album milionario «Mud Slide Slim» (quello che contiene You’ve Got a Friend) con capelli lunghissimi, baffi e trasandata tuta jeans; oggi nelle foto del nuovo cd «Covers» (100mila copie vendute in una settimana in Usa e buoni risultati pure da noi) c’è un Taylor elegante, un dandy dall’abbigliamento country e ricercato. Per il resto, la sua musica si evolve magicamente pur rimanendo legata al suo clichè: ballate che incrociano folk, blues, country, a tratti aspersioni jazz e ruggiti rock. Ballate che si presentano quasi timidamente per catturare con prepotenza il nostro immaginario collettivo. «Canto sottovoce la mia serenità mentre tutti urlano e fanno qualunque cosa per farsi notare», sottolinea Taylor. Già: sereno, felice, ma non è sempre stato così. Per quasi 18 anni ha venduto l’anima all’eroina e alla depressione. «La droga mi ha distrutto la vita ma io l’ho battuta. Il segreto? Ho chiesto aiuto. Consiglio a chiunque ci cada di parlarne, tendere la mano agli altri. Sono entrato e uscito dalle cliniche finché non ce l’ho fatta». La storia della sua dipendenza è racchiusa con vivido realismo nel brano Jump Up Behind Me. «Ero a New York mezzo morto e con l’ultima moneta che avevo ho chiamato mio padre per supplicarlo di portarmi a casa, in North Carolina. Fu l’inizio della mia salvezza e ora sono fiero di raccontarlo ai miei figli». Taylor è un altro uomo, impegnato, semplice, colto, che sa come muovere le corde del cuore. «La canzone è il modo di comunicare per eccellenza, attraverso testo e musica passa il mio messaggio. Racconto cose che condivido con milioni di persone che sono cresciute con me, e anche ai giovani». Nel 1971 è già una star nell’oasi country rock della West Coast; qualche mese prima era un illustre sconosciuto catapultato a Londra, come Paul Simon, in cerca di fortuna. E così incontra i Beatles, diventa compagno di bevute di Paul McCartney e George Harrison che capiscono subito di che stoffa è fatto il ragazzo e lo aiutano a far uscire il primo album. Poi è il ritorno trionfale in California, una carriera punteggiata da hit che vanno da Fire and Rain e Sweet Baby James, da Carolina In My Mind a Steamroller Blues passando per Mexico. Fino all’ultimo Covers, dove rilegge la tradizione, ovvero il blues Hound Dog di Big Mama Thornton (quella che cantata da Elvis provocò l’iradiddio tra i benpensanti in America), Suzanne di Leonard Cohen, Summertime Blues di Eddi Cochran (poi ripresa in versione esplosiva dai Who a Woodstock). «Interpreto brani di altri artisti come se stessi scrivendo una nuova canzone - dice Taylor - cambiando accordi, ritmo, arrangiamento». Per non cadere nella trappola della nostalgia. «Il segreto è far convivere passato e presente. I grandi artisti della mia generazione, da Joni Mitchell a Carole King a Jackson Browne, sono ancora tutti sulla breccia e hanno nuove cose da dire. Le nostre canzoni sono ancora e sempre piccole parabole di vita vissuta.

L’importante è che servano a dare un po’ di speranza a qualcuno».

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