Un team multidisciplinare per gli amputati

Il ricordo più toccante della sua attività clinica è legato all'incontro con un paziente che è tornato a trovarlo e soprattutto a ringraziarlo perché, dopo l'amputazione di una gamba dalla coscia in giù, gli è stato inserito un arto artificiale, gli è stato insegnato ad accettarlo e a farlo funzionare. Tanto bene che lui, di professione barbiere, è tornato all'attività di sempre, riuscendo a stare in piedi tutto il giorno a tagliare capelli e rasare barbe. Il merito va al professor Carlo Damiani, direttore dell'Unità Operativa di Riabilitazione Neuromotoria del San Raffaele Portuense, struttura del Gruppo San Raffaele Spa, e alla sua équipe di medici internisti, riabilitatori, fisioterapisti, terapisti occupazionali, tecnici ortopedici e personale infermieristico specializzato.
È un team multidisciplinare quello che caratterizza la struttura Portuense, sede della Scuola di specializzazione in Medicina riabilitativa dell’Università di Tor Vergata di Roma e della specializzazione in Terapia occupazionale dell’Università La Sapienza. Sono in tanti a prendersi cura di soggetti a cui è stato amputato un arto per patologie traumatiche o vascolari, a seguire malati di Parkinson e a aiutare nel percorso di riabilitazione chi ha avuto un ictus cerebrale. Tutti con un ruolo ben preciso perché «l'inserimento di una protesi artificiale non è come sostituire un pezzo di ricambio - sottolinea Damiani - il corpo umano non è una macchina e il percorso dalla cura del moncone alla realizzazione dell'arto, dall'inserimento alla sua accettazione, è molto lungo e ha un costo energetico per il paziente elevato».
Secondo l'Istat, in Italia ci sono due milioni e mezzo di disabili, di cui un milione e duecentomila di tipo motorio. Secondo la Fioto (Federazione italiana dei tecnici ortopedici)ogni anno ci sono circa 10mila nuovi amputati di arto inferiore, di cui l'80% è anziano che subisce l'amputazione in seguito a problemi diabetici o vascolari; il 10% è costituito da adulti di mezza età spesso vittime d’incidenti sul lavoro e il 10% da giovani tra i 20 e 30 anni vittime d’incidenti stradali. Le amputazioni di una arto o di una parte di esso costituiscono non solo un grave trauma fisico, ma anche psicologico a cui oggi viene data una risposta con l'applicazione di una protesi che risponde a requisiti biomeccanici, anatomici ed estetici. La corretta realizzazione di un arto artificiale e invasatura (zona dove alloggia il moncone, cioè lo contiene e lo protegge) dipende fondamentalmente dalle caratteristiche del moncone. Nel reparto diretto dal professor Damiani ci sono 78 posti letto e i pazienti arrivano a distanza di cinque, sei giorni dall'intervento chirurgico: «Il problema principale nel nostro Paese - puntualizza il direttore - è che non esiste una scuola di specializzazione specifica per l'amputazione degli arti e che la struttura dove viene eseguita l'operazione non è mai la stessa dove il malato viene riabilitato. Questo ci porta molto spesso a vedere monconi realizzati male e brutte ferite con tutti i problemi che questi fattori comportano nella realizzazione dell'arto artificiale». Ci vogliono dai 45 giorni ai due mesi per rimettere in piedi un soggetto amputato, durante i quali viene conformato il moncone, viene costruita una prima protesi provvisoria, viene provata e viene insegnato a usarla: «All'inizio il paziente deve acquisire un'autonomia di base che gli permetta di alzarsi dal letto, di andare in bagno e muoversi con la carrozzina. Poi, a distanza di circa sessanta giorni, arriva alla deambulazione autonoma». Dalla protesi provvisoria si passa a quella definitiva «perché nel corso del tempo il moncone si modifica», aggiunge Damiani. Tutti abbiamo davanti le immagini di Oscar Pistorius correre con entrambi gli arti inferiori in fibra di carbonio. «Non offre così tanto il Servizio Sanitario Nazionale - precisa lo specialista - ma protesi in fibra di carbonio non avrebbero senso per un paziente anziano che desidera solo tornare alla bocciofila sotto casa».
Durante tutto il periodo di degenza, il malato è supportato nell'attività fisica da terapisti occupazionali e fisioterapisti e nel percorso psicologico da specialisti che, attraverso il counseling e il confronto con gli altri pazienti, quindi con sedute individuali e di gruppo, lo aiutano non tanto a trovare soluzioni, ma a far sì che mobiliti le proprie risorse personali per convivere meno dolorosamente con la propria situazione. «Le tecniche sono le stesse adottate dagli alcolisti anonimi - racconta Damiani - che servono ad accettare la perdita e soprattutto a vivere l'amputazione come l'inizio di una nuova vita e non come una fine». Uno degli scogli maggiori da superare è quello del cosiddetto “arto fantasma”: il cervello dell’amputato continua a registrare l'arto come se continuasse a esistere.
«Non è un problema di ordine psicologico - continua il direttore - ma un sintomo molto frequente nel primo anno che deve essere trattato sia con i farmaci che con tecniche di percezione: i soggetti devono essere stimolati a parlarne e a non vergognarsene». Di qui uno dei filoni della ricerca condotti al San Raffaele Portuense in collaborazione con il centro di Neurofisiologia della Fondazione Maugeri di Pavia. «I soggetti in cui perdura la percezione dell’arto fantasma, che altro non è che un inganno del cervello - dice Damiani - sono quelli che faticano di più a integrare la protesi.

È il primo e maggiore ostacolo della riabilitazione».

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