Prima che si alzasse il sipario per la molto attesa Prima scaligera dell'opera in quattro atti e nove quadri, Una lady Macbeth del distretto di Mzensk di Dmitrij Shostakovich, tornava il ricordo di una poesia del poeta russo Evgenij Evtusenko. La scrisse nel 1963, s'intitolava Seconda nascita, in occasione della creazione della seconda versione della Lady Macbeth, intitolata Katerina Izmajlova, trent'anni dopo la cancellazione per immoralità voluta da Stalin. «No, la musica non era colpevole, era in esilio, sepolta sotto un cumulo di partiture dopo che una voce arrogante, un giorno, mormorò la sentenza: Caos.... Evtusenko diceva che un giorno il popolo «gli avrebbe teso la mano per farla di nuovo entrare in scena». Alla Scala il primo merito di quella mano tesa spetta a Riccardo Chailly che ha guidato l'opera lirica maggiore del compositore russo con passione e profondo sentire nella sua serata più importante. Il compito che lo attendeva e che ha superato con riconosciuto merito non era certo dei più semplici dovendo guidare una partitura che tocca tutti gli stili e generi, sottopone gli strumenti a tessiture estreme e a-soli di rilievo, richiede tensione drammatica costante, reagendo alle immagini del testo con rapidità cinematografica.
Se in passato l'eclettismo era uno degli argomenti di maggiore censura, oggi è invece quello che più attrae nell'esecuzione di quest'opera tragico-satirica, dove la sensualità e l'ironia, la malinconia e l'orrore, la passione e la rassegnazione, s'impossessano di tutti i personaggi. Questa relazione musica/azione è stata centrata nella messa in scena di Valery Barkhatov, servita da scene ambientate in un tempo più vicino al tardo staliniano di Zinovy Margolin, costumi di Olga Shaishmelashvili e luci curate di Alexander Sovaev. L'azione dalla periferia rurale dell'originale passa ad una società urbana più vicina al tempo in cui fu composta l'opera. Si svolge in un ristorante dove ogni delitto «si consuma» e consuma tutti i personaggi. Il filo conduttore della regia di Barkhatov è che il tutto nasca come una confessione dell'eroina/omicida, come frammenti di memorie e confessioni plurime che diventano l'azione, per seguire la via crucis del delitto e castigo.
Sul versante vocale l'opera è un formidabile impegno per Katerina, personaggio «tragico, complesso, serio», per la quale è richiesta una voce profondamente lirica e una resistenza fuori dal comune, ammirevolmente realizzata dal soprano Sara Jakubiak. Per il «tipo» del tipico mercante feudale, del despota crudele, lo suocero Boris, c'era la prova senza esitazioni del basso Alexander Roslavets. Il tenore russo Yevgenij Akimov ha ben caratterizzato il marito di Katerina, Zinovy, personaggio «pietoso», privo di volontà, schiacciato dalla paura del padre, indeciso, così come Najmiddin Mavlyanov che aveva l'ingrato compito del ruolo del seduttore Sergej, «mieloso, crudele e apatico». Nello stuolo dei diciotto ruoli di contorno, alcuni provenienti dalle file del Coro scaligero ed altri dall'Accademia del Teatro alla Scala, plauso collettivo con speciale menzione al contadino cencioso di Alexander Kravets.
Il trionfo di applausi finale (oltre undici minuti) era meritato premio al grande impegno profuso dal maestro Chailly, da orchestra e coro, dagli interpreti, dal regista e suoi collaboratori. E tornano le parole di Evtusenko che descriveva il momento in cui gli applausi a Shostakovich presero «un senso particolare, un senso profetico«: «Sulla scena, un uomo.
È a disagio, le sue mani, aggrovigliate, tremano; la cravatta di traverso. Resta lì, genato, col fiato corto: come un bambino confuso tiene lo sguardo basso. E si inchina così, maldestro. Non ha mai saputo farlo. Là è la sua vittoria».