È di pochi giorni fa l'annuncio, da parte dell'Università telematica eCampus, del primo percorso formativo in Italia specifico per chi desidera intraprendere la professione di "Influencer", vera e propria professione intesa come complesso e ambizioso progetto di business nel quale le leve del marketing tradizionale incontrano le più efficaci strategie digitale. Una notizia che ha letteralmente diviso il web e l'opinione pubblica. Ma chi sono lgi influencer? Come spiega Andrea Cuomo su Il Giornale, si tratta di una persona che, godendo di un grande seguito sui social network e in particolare su Instagram e su Youtube (come poi questo consenso sia stato guadagnato è spesso materia inespugnabile per intelligenze medie come la nostra) viene utilizzata dalle aziende come testimonial per pubblicizzare alcuni prodotti e per accostarli a un determinato stile di vita considerato evidentemente desiderabile dai loro follower. Un'attività ovviamente pagata, spesso così lautamente da trasformare il (o la) blogger in una star milionaria. Come Chiara Ferragni, la superstar e regina delle influencer italiane.
Un noto "influencer" è anche il fuoriclasse della Juventus Cristiano Ronaldo: secondo Business Insider, CR7 guadagna di più dall’essere un influencer di Instagram che giocando con la vecchia signora del calcio italiano. Ronaldo, infatti, ha portato a casa 47,8 milioni di euro solo da post Instagram pagati e questo soltanto nell’ultimo anno, secondo uno studio di Hopper HQ pubblicato su Buzz Bingo, che indica il 34enne come la persona con il più alto guadagno della piattaforma. Il suo salario annuale alla Juventus, per il quale ha firmato nel 2018, è di 34 milioni di dollari secondo Goal.com, cioè 14,7 milioni di dollari in meno di quello che guadagna per i suoi post su Instagram.
L’influencer più pagata in assoluto? Come riporta Money.it, è Kylie Jenner, che guadagna fino a 1.200.000 di dollari per singolo post sponsorizzato. Al 2° posto troviamo un’altra giovanissima celebrity americana: Ariana Grande. La cantante ha più di 158 milioni di follower e un singolo post sul suo profilo Instagram vale quasi 1 milione di dollari. Cifre che ci fanno capire come l'attività di influencer possa diventare un potenziale enorme per le aziende di tutto il mondo, così come un rischio - se si sbaglia ad ingaggiare un qualcuno che può compromettere l'immagine dell'azienda stessa.
Secondo l’ultimo Global Fraud and Risk Report pubblicato da Kroll, divisione di Duff &Phelps, l’attività sui social media è stata un fattore rilevante nel 27 per cento degli incidenti significativi subiti dalle aziende globali negli ultimi 12 mesi. La ricerca, condotta da Forrester Consulting, ha coinvolto 588 top manager in tutto il mondo. Di questi il 63 per cento dei leader, quasi i due terzi degli intervistati, hanno citato i social media tra le priorità principali per lo sviluppo di una strategia di difesa delle loro organizzazioni. Il rapporto rivela che, in questo momento, le aziende si trovano ad affrontare uno scenario di rischio ancora più esteso, essendo chiamate a contrastare le minacce digitali emergenti e ad affrontare questioni normative e reputazionali complesse.
Ecco allora che anche i brand ambassador e gli influecer non sono immuni da un’attenta due diligence - ossia l'attività di investigazione e di approfondimento di dati e di informazioni - che analizzi abitudini, post passati, dichiarazioni sui temi sensibili per l’azienda che intende scritturarli. Tra gli intervistati, infatti, il 78 per cento ha risposto al sondaggio dichiarando di aver fatto ricorso alla due diligence, lo scorso anno, nei confronti di queste figure. Il motivo è chiaro: prevenire possibili figuracce nelle quali l'influencer può trascinare un'azienda. Con risultati potenzialmente devastanti. Perché chi di social ferisce di social perisce. Esempio classico quello uno dei più grandi flop commerciali ai tempi degli influencer e dei loro cachet milionari: il disastro del Fyre Festival, ideato dal rapper Ja Rule, promosso da 400 tra modelle, surfisti e star della tivù e fallito miseramente.
“Il tema influencer è molto critico per le aziende - spiega Marianna Vintiadis, Head of Southern Europe di Kroll – Il brand viene fortemente associato alla figura che si sceglie ma che non essendo un dipendente diretto non può essere controllato e non è detto sia sempre in linea con le policy e con i valori aziendali. Ecco allora che il comportamento di un’influencer può influire positivamente o negativamente su un brand. Se per esempio la figura di riferimento dovesse pubblicare un post fuori luogo o non in linea con i valori di un determinato prodotto, questo potrebbe causare forti danni reputazionali e conseguentemente economici”.
Per essere certi, dunque, che il testimonial scelto non nasconda scheletri nell’armadio o possa incappare in comportamenti sconvenienti le aziende si rivolgono a investigatori specializzati che passano in rassegna post, vita, uscite pubbliche, dichiarazioni e modalità di interazione. "Se un influencer è troppo impulsivo nel rispondere ai commenti, se lo fa con toni spropositati va prestata attenzione – continua Vintiadis -. Parte dell’analisi necessaria mira a capire quale è stata l’evoluzione del comportamento sui social nel tentativo di prevenire scandali e danni futuri”. Il danno reputazione è oggi più che mai oggetto di attenzione da parte delle aziende. Un danno che risente sempre più della diffusione di fake news. L’84 per cento delle aziende si sente minacciato dal rischio di manipolazione del mercato perpetrato tramite diffusione di fake news che sono alimentate nella maggior parte dei casi proprio dai social media che vanno per questo monitorati e presidiati.
“Le fake news son un fenomeno globale – spiega Marianna Vintiadis, Head of Southern Europe di Kroll - ma il contesto in cui si sviluppano può fare la differenza. Ad esempio, nei Paesi in cui sono presenti una popolazione giovane e informatizzata e media con standard editoriali deboli, le fake news passeranno più facilmente dall’online all’informazione mainstream e le parti coinvolte difficilmente riescono ad avere la meglio in una controversia gestita sul piano giudiziario. Poter contare invece su una industria editoriale dove questo tema è regolato attraverso normative specifiche rappresenta senza dubbio la più efficace tutela anche per le aziende rispetto a questo pericolo”.
Dalla ricerca di Kroll emerge infine il timore da parte delle aziende di un cyber attack globale che possa portare una crisi economica di portata mondiale. “Anche in Italia – commenta Marianna Vintiadis –, è ben presente il timore di un cyber attack globale, come ha dichiarato oltre il 66% degli intervistati su una media globale del 68%, ed è significativamente più elevato quello del furto di informazioni interne, che raggiunge l’89% contro il 73% globale.
Interessante notare come anche nel nostro Paese il ruolo dell’Internal Audit sia cruciale per il contrasto del rischio cyber (26% contro il 28% globale) e che sia in crescita il ricorso all’istituto del whistleblowing, sebbene resti ancora di alcuni punti sotto la media globale (9% rispetto al 13%). Un dato peculiare dell’Italia, infine, riguarda il timore del rischio connesso alla contraffazione del marchio, con danni subiti dal 23% degli intervistati contro una media globale del 17%”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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