Big Tech e libertà

La mappa del tesoro di big tech: lo strapotere non solo sul web

Il big tech si arricchisce vendendo i dati che noi stesso gli forniamo con un consenso esplicito ma di cui non siamo, molto spesso, consapevoli. E che estrae da veri e propri imperi digitali.

La mappa del tesoro di big tech: lo strapotere non solo sul web

Lo strapotere delle grandi piattaforme digitali, dai social network alle società che gestiscono imperi in diversi settori molto distanti tra loro (Amazon in testa), è un tema fondamentale di discussione nel dibattito politico e mediatico contemporaneo. Tanto che di fronte a certi veri e propri casi di arbitrio (modifiche unilaterali dei contratti, fenomeni di censura, shadow banning) il mondo mediatico e i decisori politici si sono sentiti chiamati in causa e tenuti a promuovere o caldeggiare misure volte ad ampliare lo scrutinio sulle attività dei colossi tecnologici.

Tutto questo ci porta alla radice del problema. E cioè il fatto che la forza principale del big tech sta nella fonte principale di risorse che quotidianamente gli viene, spontaneamente, concessa. E nella consapevolezza che tutto ciò che passa per i loro canali, dai meme ai dibattiti sui massimi sistemi, contribuisce in fin dei conti a profilare la vera miniera da cui estrarre i preziosi dati che vengono utilizzati come fonte del loro business: noi stessi. I nostri dati sono il carburante, il motore è un sistema di società tecnologiche estremamente concentrato e in mano a pochi oligopolisti.

I dati, la miniera del big tech

Molto spesso tendiamo a sottovalutarlo. Ma siamo noi stessi, consapevolmente, che iscrivendoci alle piattaforme digitali avviamo questo percorso che porta, come un Panopticon o un Grande Fratello, le società digitali a profilarci attraverso i loro filtri e i loro algoritmi. Come un prato coperto da un manto nevoso, Internet è un terreno su cui ogni passo lascia impronte profonde. E i "passi" sono da noi compiuti attraverso delle azioni apparentemente banali, quei tasti "Accetto" con cui concediamo alle piattaforme in cui ci iscriviamo la possibilità di fare dei nostri dati gli usi che meglio ritengono nei limiti di legge.

Questi dati personali non appartengono quindi a noi e nemmeno ai nostri cari dal momento in cui sottoscriviamo quelli che sono veri e propri contratti a costo zero. L'esca è la gratuità dell'account, l'amo la possibilità per il big tech di costruire dei veri e propri imperi informativi sulla scia delle tracce che noi acconsentiamo a lasciare.

Se la privacy, in passato, era prerogativa di istituzioni governative e Stati democratici, oggi è affidata alle aziende tecnologiche, a cui noi abbiamo rivelato, più o meno consapevolmente, chi siamo stati, chi siamo e chi vorremmo essere. Sono veri e propri contratti, personalizzati a secondo del bisogno, a cui prestiamo il nostro assenso accettandoli senza alcuna coscienza critica e dimenticandoci, per carenza di tempo e voglia, di leggerli Giurando di fatto il falso, dato che accettiamo dichiarando di aver "letto e compresa l'informativa sulla privacy" in cui ogni società chiede esplicitamente i dati a cui può avere accesso qualora l'utente li inserisse sul sito. E così, nota Security.org, Facebook può legittimamente conoscere la nostra mail, i nostri sistemi di pagamento, la durata delle nostre attività, le nostre preferenze politiche, sociali, sessuali, religiose, le attività da noi compiute leggendo articoli o guardando video, i nostri connotati (avrete notato i suggerimenti di tag sui volti nelle foto, legati all'utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale sul riconoscimento facciale). Google va oltre, specie sui dispositivi dotati di segnale GPS attivo, registrando tempi e orari degli spostamenti, password associate agli account creati utilizzando le mail di Big G, le stesse conversazioni di posta elettronica e, attraverso i registratori vocali, anche i dialoghi degli utenti. A cui si associa la capacità trasversale di capire l'ecosistema di device utilizzati da ogni utente e di ricordare la cronologia delle ricerche di un utente. La stessa che fa la fortuna di un colosso dell'e-commerce come Amazon.

Chiaramente, la gratuità dei social network e delle piattaforme affini e l'elevato grado di usabilità di buona parte delle funzioni dei siti del big tech senza alcuna necessità di pagamenti è un punto di forza che consente alle società in questione di buttarsi a tutta forza sul mercato delle pubblicità, che rappresentavano nel 2020 l'82% degli incassi di Google, l'84% di quelli di Twitter e il 98% di quelli di Facebook, ma sono saliti di oltre il 40% anche per Amazon, che dall'advertising incassa 15 miliardi di dollari l'anno.

Ma tutto questo non si ferma qui. Perchè dietro ai brandi celebri dei siti e dei social network che vediamo come "patina" dei colossi tecnologici si celano enormi conglomerati finanziari che controllano, in maniera simile a moderne Compagnie delle Indie, affari e società nei vari settori. Sui cui lavori, molto spesso, è mantenuto il riserbo. Ma che silenziosamente ampliano le prospettive operative del big tech all'insaputa dei comuni consumatori. Arrivando fino a settori insospettabili.

La mappa del potere del big tech

Alphabet, in questo senso, è un esempio. La holding di Mountain View che è a capo di Google controlla un'ampia rete di partecipazioni societarie o di imprese create ex-novo entro i suoi perimetri.

Alphabet è un interessante caso di studio per capire quali siano gli obiettivi della diversificazione di business delle società del big tech. Tutto ruota intorno ai dati: ottenerli con le interfacce web non basta più, e dunque il big tech deve pensare a come "digerirli", come ampliare le interfacce utenti e rafforzare la connettività in modo tale da invogliare cittadini, imprese e consumatori a espandere la loro presenza nel web. Va fatto un netto distinguo tra le società che forniscono servizi a sostegno del business della capogruppo e quelle, invece, che la portano fuori dai suoi perimetri, e Google e compagnia insegnano: Alphabet controlla DeepMind, società dedicata all'Ia che raffina gli algorimi di profilazione di Big G e offre servizi alle imprese, i fondi di venture capital e gli incubatori aziendali riuniti attorno a GV e Jigsaw che lavorano per creare start-up e società destinate a essere incorporate nel gruppo, ma anche una serie di diversificazioni di business: GoogleFiber partecipa al mercato della connettività internet tradizionale, fornendo cavi in fibra ottica che mireranno a sfondare il terabit di potenza; Project Loon mira a garantire la connettività tramite palloni ad alta quota, e nel cappello di Alphabet ci sono una serie di partecipazioni in società che costruiscono veicoli a guida autonoma (Waymo), sistemi per la robotica (Google X) e addirittura prodotti biomedicali (Verily e Calico). Un approccio "industriale" che ricorda quello dei fondi dei Paesi del Golfo che si diversificano rispetto al mondo del petrolio.

A sua volta pervasiva è Amazon. La società di Seattle è stata capace di espandere il suo soft power per l'acquisizione dati degli utenti diversificandosi nel settore dei libri (Audible e Goodreads), nella domotica (Ring), nei servizi di streaming (Twitch), oltre a controllare piramidalmente una serie di compagnie che controllano store settoriali di vendita al dettaglio e che ne rappresentano versioni in scala ridotta, come l'indiana Junglee. Amazon, vera e propria miniera di dati, fa inoltre del cloud di Amazon Web Services il suo punto di forza, dato che l'infrastruttura Aws è fornita in gestione a compagnie, istituzioni e prvati per consentire una conservazione dei dati che dipende sempre dagli strategici data center del gruppo. Anche Amazon, inoltre, lavora sull'infrastruttura satellitare di trasmissione internet con la sussidiaria Kuiper System.

Facebook sceglie invece di incorporare attorno alla sua struttura tutte le società acquisite e di controllarle come sue sussidiarie: WhatsApp, Instagram e Giphy, ad esempio, sono entrate in tal modo nell'impero di Mark Zuckerberg che al contempo procede sulle ricerche di frontiera (dall'intelligenza artificiale alla stablecoin Libra) con risorse interne.

Un esempio poco noto di conglomerato che mostra quanto, molto spesso, società digitali apparentemente slegate tra loro possano avere comuni padroni è IAC ( InterActiveCorp), la controllante del motore di ricerca Ask, che si è diversificata dai servizi finanziari (Investopedia) al mercato immobiliare (HomeAdvisor), passando per i servizi video (Vimeo) e l'editoria (Daily Beast). Un classico esempio di matrice statunitense che mostra la porosità degli obiettivi di business del big tech.

La questione dei servizi finanziari mostra che anche in quel settore sono i dati degli utenti l'obiettivo finale. Pensiamo a Robinhood, l'applicazione divenuta celebre per l'esplosione della bolla GameStop, o all'euro-israeliana eToro. In entrambi i casi la fonte di reddito per la società che gestisce la piattaforma sono i dati degli utenti: le informazioni sulla situazione finanziaria, le prestazioni di investimento, il grado di propensione al rischio sono fondamentali in quest'ottica. E se i dati sono il petrolio del XXI secolo, non stentiamo a capire perché la più corposa operazione di matrice finanziaria nel mercato borsistico di questi anni sia stata l'acquisizione della banca dati Refinitv ad opera del London Stock Exchange, che le autorità della City di Londra hanno pagato 27 miliardi di dollari al fondo Blackstone, accettando in cambio di sacrificare il controllo di Piazza Affari in favore di Euronext. Il carburante che Refinitiv darà a Lse sarà la sua piattaforma dati e la possibiltià di gestire i dati sensibili personali di circa 40mila aziende sparse in 190 nazioni. Una "profilazione" colossale che replica in larga scala quanto fatto dal big tech.

I nostri dati e gli imperi tecnologici

Di fronte a imperi tecnologici tanto vasti (e gli esempi potrebbero continuare...) ci si chiede che potere di scrutinio abbia il singolo utente. Che rischia di finire come un criceto in una gabbia, costretto a generare informazioni correndo sulla ruota del web e passando da oligopolista a oligopolista. Effettivamente la questione è estremamente dibattuta e molto dipende dalle singole legislazioni nazionali: in molti contesti, la privacy dei dati personali più sensibili è sottoposta al vincolo della singola piattaforma, mentre tendenzialmente i dati di profilazione più personali (nome utente, password, email) sono trasmissibili all'interno degli stessi gruppi. Fermo restando che l'utilizzo di cookie di profilazione e di terze parti va sempre vagliato per capire in che modo il big tech "insegua" gli utenti nelle succursali.

Non esiste una regola certa, ma il trend è chiaro: big tech vuole che noi utenti creiamo sempre più dati e che lo facciamo il più possibile all'interno di piattaforme ben definite. Google, che ha racchiuso sotto le sue insegne un ampio ecosistema che va da YouTube a Gmail, ha aggirato la possibilità di limitazioni unendo tutto sotto un'unica struttura giuridica aziendale. Ma al tempo stesso la sua holding, Alphabet, insegna che l'obiettivo delle società tecnologiche è anche creare le condizioni perchè in futuro si possa navigare di più, più a lungo e con maggiore possibilità di condividere informazioni. Nella certezza che i servizi di cloud (sempre in mano al big tech, da Amazon a Microsoft) consentiranno ulteriori possibilità di profilazione, che molti dati saranno concessi autonomamente dagli utenti grazie all'ascesa di sistemi come IoT e intelligenza artificiale e che l'interesse economico freni i decisori dall'introdurre regolamentazioni più stringenti.

In Europa abbiamo, in questo momento, attiva da alcuni anni la regolamentazione Gdpr che consente al decisore continentale di porre un argine all'attività di controllo del big tech sui dati personali degli utenti. In particolare, la Gdpr obbliga i controllori degli indirizzi di navigazione di un dato sito a segnalare che il sito consente l'utilizzo di cookies di profilazione e l´invio di cookie di "terze parti". All'articolo 5 del Gdpr è previsto inoltre che i dati personali devono essere “conservati in una forma che consenta l'identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati” e non per periodi di tempo indefiniti e prorogabili. Così come risulta obbligatorio segnalare se tra le finalità della raccolta dati esiste la possibilità di venderle per il marketing diretto riguardante le informazioni degli utenti/consumatori.

Parliamo di una rivoluzione copernicana? Certamente no. Ma la Gdpr insegna che col big tech si può mediare imponendo regole di condotta. E l'impossibilità di Facebook di applicare all'Europa le regole di trasmissione dati tra WhatsApp e il resto dell'impero di Mark Zuckerberg che ha causato l'ondata di techlash contro la società di Palo Alto testimonia la crescente consapevolezza su scala globale riguardo il tema. Una consapevolezza necessaria: noi siamo la vera fonte di guadagno dei colossi della tecnologia e nelle nostre mani, come cittadini prima ancora che come utenti e consumatori, sta la possibilità di creare un consenso diffuso sul corretto metodo di cessione di dati che rappresentano una fondamentale e inalienabile estensione digitale della nostra persona.

Premessa per interventi legislativi che consentano di evitare che le nostre società siano trattate come "miniere" da parte delle Compagnie delle Indie del XXI secolo.

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