Dal Gangnam Style all'Harlem Shake, dalle dichiarazioni d'amore agli spot, i video si sono ritagliati una fetta sempre più grande del web. Basti pensare che tra il 2011 e il 2012 YouTube ha registrato più di un trilione di visualizzazioni. Significa che ogni persona sulla Terra ha visto almeno 140 video. Dati importanti anche per le aziende, che nel 2013 investiranno - si stima - 10 miliardi di dollari proprio sul web e in particolare sui video, minacciando quello che è stato finora il primato delle televisioni. Gli spot tv andranno in onda anche sul pc? O anche nel caso della pubblicità è importante seguire le regole di internet? Ne abbiamo parlato con Andrea Febbraio, ad di Ebuzzing Italia e autore insieme a Dario Caiazzo e Umberto Lisiero di "Viral Video - Content is King, distribution the Queen" (Fausto Lupetti Editore).
Quanto è importante che un'azienda si sponsorizzi tramite un video?
È importantissimo e lo dimostra il fatto che, nel mercato della pubblicità in generale, l'unico settore che cresce in termini di investimento negli ultimi anni è proprio quello su internet, che ha registrato un +8%. E soprattutto grazie alla pubblicità video, che rappresenta oltre il 70% nel 2012 nel complesso della pubblicità su internet, con 150-200 milioni di euro di investimenti stimati nel 2013 solo in Italia. Capire perché è semplice: per tanti anni c'è stata la supremazia della televisione che ha orientato i brand a investire soprattutto nel classico spot tv. Oggi per un brand è facile capire che alcuni target si sono spostati su un altro mezzo e che lo stesso spot che passano in tv possono passarlo online. E poi il video è per sua natura il formato più emozionale che c'è. Non c'è niente che emozioni più di un video.
Come mai un libro sulle tecniche di distribuzione dei video online?
Per due motivi. Il primo è che ormai il termine "virale" è diffuso, quasi abusato, e che occupandoci di pubblicità e video online da ormai cinque anni ci sembrava di poter raccogliere le idee e il nostro punto di vista su questo settore. E poi vogliamo sfatare il mito che è nella testa di tutti i creativi, dei brand e in parte anche dei consumatori secondo cui conta solo il contenuto. Ci piace ripetere il nostro motto: “Content is King, distribution is Queen”. Tutti pensano che basti creare qualcosa di "figo” e metterlo su YouTube perché giri sul web. Ma la possibilità che una strategia simile funzioni è dello 0,01% (cioè la percentuale dei video caricati su internet che raggiungono il milione di visualizzazioni). Difficile che questo accada senza un aiuto.
Che genere di aiuto?
È quello che spieghiamo nel nostro manuale. Si tratta di un insieme di tecniche usate da noi e da tante altre agenzie in tutto il mondo che permettono a un video di diventare virale indipendentemente dal contenuto.
Secondo te qualsiasi tipo di video può essere aiutato con le tecniche che consigliate?
No, non è possibile. A noi capitano tutti i tipi di video, ma esiste una particolare tipologia di video adatti alla viralità: si tratta dei cosiddetti branded content, video più lunghi dei classici 30 secondi (intorno a 60-70 secondi) e che sono delle vere e proprie ministorie, come ad esempio "P&G Best Job in the World" o "Volkswagen Star Wars". Noi non siamo dei creativi, ci occupiamo della distribuzione, ma il libro si basa sulla nostra esperienza e su 2mila campagne curate negli ultimi anni. Analizzandoli ci siamo resi conto che ci sono 7 regole d'oro per aumentare le possibilità che un video diventi virale.
Quali sono?
Per citarne alcune, la prima è "Story matter most", cioè la storia viene prima di tutto: i video che si concentrano troppi sul prodotto difficilmente diventano virali. Poi "First five second", che ha noi piace chiamare "Parti con il botto": i primi 5 secondi servono a catturare l'attenzione e devono contenere un "gancio" che non faccia chiudere il video. A quel punto c'è un'altra regola che chiamiamo "Emotional rollercoaster", saliscendi emozionale, per arrivare al finale in cui è importante sorprendere l'utene e non scioccarlo. Difficilmente si condivide un video choc perché nessuno vuole essere associato a un contenuto negativo. Diverso è lo sdegno, che aiuta a far circolare un video. La tristezza no.
Come siete giunti a questa conclusione?
Usiamo uno strumento creato in collaborazione col Mit, che si chiama "Buzz Index". Una tecnologia innotaviva che permette attraverso la webcam che viene attivata dall'utente di analizzare le espressioni che fa mentre guarda un video. Ci sono delle emozioni, come la tristezza, che non spingono all'azione: sono forti, ma passive. Lo sdegno invece è altrettanto forte, ma attivo. Solo che è difficile che un brand voglia collegarsi allo sdegno. Ecco perché è più facile trovare video che spingono alla sorpresa o a quella che in inglese si chiama "Awe".
E poi internet aiuta grazie all'interattività...
È una cosa fondamentale: sul web è importante l'engagement, che nel marketing misura l'intenzione e l'attenzione. E l'interattività permette di migliorare entrambi i parametri grazie ad alcuni stratagemmi creativi (come, ad esempio per i video di Tippex, quelli che permettono di cambiare il finale di una storia) o con altre tecniche, come gli overlay (player personalizzati, con bottoni di condivisione, animazioni sul video, campi in cui si possano inserire dati ad esempio per un concorso, ecc.)
È per questo che avete reso "interattivo" anche il libro?
Era importante in un testo
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