di Livio Caputo
È trascorso quasi un anno dal giorno in cui ho ricevuto la telefonata da cui ha avuto avvio il cosiddetto affare Montecarlo: la vendita da parte di An di un appartamento nel Principato, ricevuto in eredità dalla contessa Colleoni «per la buona causa», a una misteriosa società offshore per circa un terzo del suo valore reale. Per tutta lestate scorsa la vicenda ha dominato la scena politica, e a mano a mano che risultava chiaro che i 70 metri quadri di Boulevard Princesse Charlotte erano in realtà finiti nelle mani del «cognato» di Fini, Giancarlo Tulliani, e che la compagna del presidente della Camera Elisabetta si era occupata personalmente della ristrutturazione, anche i giornali che nei primi giorni avevano ignorato la storia hanno dovuto occuparsene. Per settimane Fini si è chiuso in un imbarazzante mutismo, poi ha cominciato a lanciare accuse di «dossieraggio», poi ha ammesso di essersi comportato con leggerezza, infine, pur protestando la propria estraneità alloperazione, si è impegnato a dimettersi se veniva provato in maniera inoppugnabile che lacquirente beneficiato dal megasconto era suo cognato. Ma è passato un anno e non è successo nulla. Ormai, chi abiti lappartamento incriminato e quale ruolo abbiano avuto i famosi «mediatori» non sembra interessare più; e per quanto le prove dellinghippo siano state ampiamente raggiunte, Fini continua a sedere sullo scranno più alto di Montecitorio.
Giorni fa mi è capitato di fare qualche riflessione sul tema con Mr. X, lamico che, al ritorno da un viaggio nel Principato, mi aveva informato dellesistenza di questa casa e che poi aveva assistito, un po attonito, agli sviluppi dello scandalo che aveva innescato. La prima reazione è stata banale: tutti sanno che una notizia scaccia laltra, e laffare Montecarlo non poteva sfuggire alla regola. Ma la spiegazione non ci soddisfaceva: è vero che a un certo punto la vicenda, dal punto di vista cronistico, era arrivata a conclusione. Linchiesta del Giornale era stata riconosciuta anche da un a avversario politico come Padellaro come «esemplare» e aveva risposto a tutti gli interrogativi. Tuttavia, alla resa dei conti, sul piano politico la storia è passata come l'acqua sul marmo. Se (almeno nella interpretazione della magistratura romana) la vendita della casa del partito a una «offshore» a un prezzo di liquidazione non costituiva reato penale, sul piano morale era decisamente squalificante. Fini aveva prima negato tutto, poi preso un solenne impegno e lo aveva ignorato. «In decenni di giornalismo sul campo, non avevo mai incontrato unautorità istituzionale arroccata, almeno a parole, su una linea tanto eversiva. Fini deve aver pensato che i giornali erano soltanto un potere di carta» ha scritto Pansa nel suo «Carta straccia». Dopo una tale serie di figuracce, in un Paese normale il presidente della Camera sarebbe stato costretto alle dimissioni a furor di popolo. In Italia ha trovato anche chi lo ha difeso, spesso a colpi di menzogne, perché dopo la rottura con Berlusconi era diventato una specie di eroe, comunque una pedina importante per fare saltare la maggioranza. Flectar non frangar, mi piego ma non mi rompo, è stata la sua tattica vincente, mentre si trasformava (sempre secondo Pansa) «da esternatore indefesso nel muto di Montecitorio»: e oggi, se qualcuno chiede ancora le sue dimissioni, non è per la squallida storia di Montecarlo, ma per il doppio ruolo di presidente della Camera e politico superimpegnato.
Alla fine della nostra chiacchierata, il mio amico era sconsolato: «Come già disse Shakespeare, molto rumore per nulla». «Per nulla proprio no» ho cercato di consolarlo.
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