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Un telefono arancione ridà vita alle aziende

Notai, commercialisti, fiscalisti: una rete di mutuo soccorso aiuta gli imprenditori in crisi

Un telefono arancione ridà vita alle aziende

Bisognerà aggiornare la voce «imprenditore» nel dizionario dei termini economici. Ora tra le parole correlate si trova competizione, responsabilità, innovazione, investimento, rischio. E solitudine. Invece sarà il caso di aggiungere ai sinonimi anche vocaboli che oggi sono elencati tra i contrari, come solidarietà, accompagnamento, ascolto, mutuo soccorso. Con le dovute eccezioni, tra capitani d'industria vigono l'antico detto latino «mors tua vita mea» e un'immutabile legge dell'evoluzione: il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Meno praticato è il proverbio secondo cui l'unione fa la forza, salvo che si tratti di intrecciare cordate per conquistare nuovi mercati o creare un «distretto produttivo» per contenere le spese.

Un imprenditore che aiuta un collega sembra una contraddizione in termini. Eppure per molti la mano di un collega è stato l'unico modo di sopravvivere negli anni della crisi, e per qualcuno anche di trovare una ragione di vita per non buttarsi da un ponte. «Una telefonata allunga la vita» fu un fortunatissimo slogan della Sip (prima di diventare Telecom) negli anni 90: lo squillo raggiungeva l'attore Massimo Lopez davanti al plotone d'esecuzione. Oggi una telefonata può salvare l'azienda; basta chiamare il numero del Telefono arancione (02-3790.4470). Risponde un gruppo di imprenditori che hanno alle spalle qualche rovescio, l'hanno affrontato e ne sono usciti. Danno una mano, non soldi. Offrono consigli e consulenze gratis attraverso una rete di professionisti. E contribuiscono a ricostruire un tessuto produttivo in cui nessuno debba vergognarsi di essere imprenditore.

L'anima del Telefono arancione è Lorenzo Orsenigo, 76 anni, brianzolo di Cantù (Como), ex titolare della Orsogril, leader in reti grigliate e recinzioni metalliche per l'edilizia. «Dieci anni fa ero in pieno boom racconta -: 55 milioni di fatturato, unico proprietario, 180 dipendenti, salute buona, i figli in azienda». Poi arrivò la crisi e il blocco del settore, i clienti non pagavano. Orsenigo dovette ammainare bandiera con un concordato, liquidando il dovuto ma perdendo tutto. Il giorno in cui depositò le carte in tribunale ebbe un infarto. «Che cosa fa un imprenditore quando le cose vanno male per colpe non sue? Resiste dice -. Non tocca gli stipendi, fa sconti per non perdere clienti, s'indebita. Pensa che il peggio passerà e intanto il rosso aumenta. È una spirale dalla quale da soli non si esce. Io ho avuto una fortuna, la famiglia. I miei figli mi hanno detto: férmati. E mia moglie mi è stata accanto».

La solitudine dell'imprenditore

La solitudine. L'imprenditore è un uomo solo. Solo a ideare l'azienda, a intuire il futuro del mercato, a capire il valore di un collaboratore, a non adagiarsi e insistere per innovare. È solo quando ci mette la faccia, i soldi, il tempo, il coraggio; quando prende le decisioni e quando affronta un contesto sociale spesso ostile, per il quale imprenditore uguale padrone, sfruttatore ed evasore fiscale. L'Italia è la patria mondiale dei piccoli e medi imprenditori, che costituiscono la spina dorsale della nostra economia. L'Istat calcola nel 2015 circa 4,2 milioni di aziende, delle quali 4,1 milioni (il 95,4%) con meno di 10 dipendenti e appena 3.600 (lo 0,08%) con oltre 250 lavoratori.

Un Paese fatto di persone che si mettono in proprio per crescere e competere. Gente che però nei momenti di crisi è ancora più sola. Subentra una vergogna paralizzante. «La vergogna comanda sempre - ammette Orsenigo -. Comanda quando stai andando in rosso, quando sei in rosso e non lo dici a nessuno, quando vorresti fare una cosa brutta e anche quando, evitata la cosa brutta, non dici a nessuno ciò che volevi fare». Dal 2012 l'Osservatorio Link Lab ha registrato in Italia 822 suicidi per motivi economici, il 42,8 per cento imprenditori e il 40,1 disoccupati, oltre a 558 tentativi. Ma c'è anche un'incapacità strutturale: «Siamo dei dannati cocciuti», spiega l'imprenditore, «crediamo sempre di farcela senza renderci conto di quando arriva il momento di fermare il treno in corsa. E quando ce ne rendiamo conto non sempre scegliamo il modo migliore per dire basta».

Lo conferma Mirco Gasparotto, alla testa del gruppo Arroweld (saldatura e distribuzione di prodotti industriali), tra i maggiori sostenitori di Telefono arancione: «A chi è in difficoltà qualcuno esterno all'impresa, deve dire: tu non sei la tua azienda. Il fallimento non è la fine di tutto». Gli fa eco Federico Terraneo, che guida con successo la Neologistica di Origgio (Varese) con un magazzino automatico unico in Europa: «L'impresa nasce, cresce e può anche morire senza che l'imprenditore sia uno speculatore. In Italia è ancora un dramma perché esiste una certa cultura anti imprenditoriale, negli Stati Uniti no. È giusto dare una mano per evitare che qualcuno possa finire male. Ma anche le associazioni datoriali dovrebbero occuparsi di più del fine vita aziendale».

Regola numero uno: ascoltare

Orsenigo chiese una sponda proprio all'associazione degli industriali di Lecco senza trovarla. «Del resto ricorda c'erano 600 soci di cui 350 con cassa integrazione». Decise di mettere in piedi lui quello che sarebbe diventato il Telefono arancione. Il soggetto promotore è un'associazione chiamata San Giuseppe imprenditore. «Il padre putativo di Gesù è il patrono dei lavoratori perché era un falegname, un artigiano. Un collega», sorride Orsenigo. Il telefono, messo a disposizione da Phonetica, la più importante società italiana di telemarketing, in tre anni ha ricevuto oltre 400 chiamate da tutta Italia. Il call center compila una scheda sulla situazione aziendale e la gira a un gruppo di lavoro. «Per prima cosa ascoltiamo dice Beppe Moretti, tra i collaboratori più stretti di Orsenigo, anch'egli reduce da una chiusura aziendale traumatica -. Gli imprenditori in difficoltà hanno bisogno di parlare con un collega prima che con un esperto. Uno che ci è già passato e che possa dare un consiglio anche dicendo che forse è meglio chiudere per evitare altri disastri».

L'aiuto dei tecnici

Il vicepresidente Sandro Feole ha radunato un pool di professionisti: commercialisti come lui, fiscalisti, notai, legali. «Affrontano la situazione nel dettaglio tecnico giuridico spiega Moretti -, cercano di capire le cause del dissesto, se c'è stata cattiva gestione, com'è il mercato e come porre rimedio. Se non vale più la pena tirare avanti suggeriscono la strada più adeguata e meno dispendiosa per chiudere l'azienda. Noi al Telefono arancione non siamo maghi; tentiamo di dare una mano. Denaro non ne circola, non lo diamo né lo chiediamo. Creiamo una rete, cerchiamo di rimettere in movimento persone che non sanno che pesci prendere. Parecchie volte l'operatore del call center mi ha girato direttamente la telefonata senza il filtro della scheda. Io stesso non mi sono coinvolto subito con Orsenigo. Avevo letto un articolo su di lui che mi ero messo da parte, ma ho trovato la forza di incontrarlo soltanto dopo un anno e mezzo. Ho lavorato 42 anni per me, ora lavoro per altri».

Un agente assicurativo è stato aiutato a crearsi nuovi clienti. Un ambulante di abbigliamento ha imparato a galleggiare tra le cambiali: un mese le bollette, un altro il mutuo, un altro ancora i fornitori, sperando di uscirne. Ci sono i furbi a caccia di soldi e i piccoli artigiani che non osano dire ai figli che non sanno come pagare le rette dell'università. Qualcuno ha richiamato dopo una settimana perché non aveva da ricaricare il cellulare, gente che ci ha rimesso lavoro, casa, famiglia e rischia di perdere anche la dignità. Una piattaforma gestionale messa a disposizione da un'azienda informatica amica del Telefono arancione, Ermes Italia di Domenico Putignano, aiuta a tenere in rete e a fare marketing relazionale. «Da un paio d'anni abbiamo allargato l'attività fondando la Compagnia di San Giuseppe aggiunge Orsenigo , un pattuglione di persone che cerca lavoro a chi non ne ha. Non c'è nulla di male a ricominciare a 60 anni facendo il dog sitter o il cuoco a domicilio. Un tizio ha aperto una cooperativa per pulire i gabinetti dei tabaccai milanesi. I debiti sono brutti, ma il frigo vuoto è peggio.

Fallisce l'azienda, non la persona».

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