Sarà un caso, ma appena si è delineato il conflitto tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti sono successi fatti inquietanti. In cosa consista il dissidio è noto. Dopo i cattivi risultati elettorali e referendari, il Cav ha capito che per recuperare il consenso doveva attuare l’essenziale del programma di governo fin qui trascurato. Il punto principale era l’abbassamento delle tasse di cui si è parlato anche ieri nel vertice dei ministri. L’osso duro da affrontare era il ministro dell’Economia che da quell’orecchio non ci sente perché punta alla parità di bilancio. Tremonti non vuole sentire di tagli di imposte se non riduce prima le spese, cancella agevolazioni e cose così. Poiché però qualsiasi cambiamento suscita critiche e resistenze, il ministro preferisce non fare niente.
È in questa cornice che il Cav ha affrontato il suo capace ma testardo collaboratore. Ci sono stati incontri a quattr’occhi ed è intervenuto anche Bossi che di Tremonti è amico. Gli si è fatto capire quanto i contribuenti siano stufi di fare i ciuchi da soma, quanto delicata fosse la situazione politica e i rischi che corre il centrodestra di essere spazzato via alle prossime elezioni. Tremonti, che normalmente minaccia di dimettersi se gli fanno girare le scatole, si è dimostrato comprensivo. Così ha rivelato che già da un anno sta pensando alla riforma fiscale e che ha le idee chiare. Ha fatto circolare delle anticipazioni come le tre aliquote al posto di cinque, il quoziente familiare, il bonus bebè, l’abolizione dell’Irap, ecc. In realtà, prende tempo. Ringalluzzito però dall’inusitata arrendevolezza, il Cav ha rilanciato protestando per le aperture troppo piccole, il poco coraggio, la visione ragionieristica del suo ministro. È persino sbucata da qualche anfratto di Palazzo Chigi una riforma fiscale alternativa del Cav, più generosa e popolare. Nonostante la volatilità dei progetti, i giornali ci hanno ricamato sopra.
Si profilava perciò una frattura tra un irruente Cav e un prudente Tremonti disponibile sì, ma non troppo, non adesso, meglio mai. Quando già il dibattito politico prendeva la classica strada del tira e molla, con le estenuanti trattative all’italiana che dopo molte chiacchiere finiscono nel nulla, è accaduto quello che mi spinge a scrivere l’articolo.
Improvvisamente, il mondo intero si accorge di noi. La premiata ditta Moody’s ci avverte che siamo in una posizione assai delicata e che rischiamo il default. Più o meno, la bancarotta. L’eco è enorme, gli interrogativi molteplici, i sospetti pure. Perché l’Italia? Perché ora? Neanche il tempo di riflettere, che il giorno successivo Jean Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo, cioè il numero uno dei ministri dell’economia dell’Ue, spiattella ai giornali di mezza Europa che l’Italia «rischia l’effetto contagio» della Grecia. L’intervento dà la stura ha un diluvio di commenti di mezzo mondo sui nostri guai. L’idea che se ne ricava è che il Paese è considerato malato e non ha che una strada: applicare le ricette del suo medico, ossia Tremonti, l’amico dei simposi internazionali, del G8, Fmi, Wto, ecc. Le virtù del ministro sono contrapposte ai difetti del Cav, trattato da cicala incosciente. L’Italia che conta si allinea. La signora Marcegaglia, dimentica dei suoi innumerevoli interventi per sollecitare il calo delle imposte, si schiera con il rigore di Tremonti, raccomanda la pesante manovra da quaranta miliardi. Il coro si allarga agli economisti dei maggiori quotidiani e agli esperti dell’opposizione che si scoprono tutti tremontiani.
Da un giorno all’altro, il dibattito partito per contenere le tasse si concentra invece sul reperimento, con le buone o le cattive, dei quaranta miliardi. Tra le ipotesi, il raddoppio dell’imposta sulle rendite finanziarie, che passerà dal 12,50 al 20-22 per cento. Insomma, come nel gioco delle tre carte, dopo averti illuso sull’abbassamento dei tributi, scopri che te li stanno aumentando. Questa - stando alle apparenze - è farina del sacco di Tremonti. Il Cav - sempre a naso - sembra però non starci. O almeno, come se non si fosse accorto del cambiamento di scenario, ha continuato a promettere l’alleggerimento delle accise. E subito, mentre il ministro taceva, è nuovamente intervenuta l’ineffabile Moody’s. Stavolta da tritasassi per intimidire il Cav e fargli capire che non è aria. Infatti, l’agenzia di rating annuncia che spulcerà i conti di venti tra banche e grandi imprese italiane. Tra i motivi avanzati per giustificare l’intrusione, i dubbi della politica sul come affrontare le difficoltà dell’economia. In altre parole: la distanza tra il premier e il suo ministro. L’uno che vuole riavviare il Paese riducendo il Fisco. L’altro che ritiene una bubbola il rilancio produttivo e vede nelle tasse e nella lesina la sola salvezza. I due, apparentemente, con la riunione di ieri alla Presidenza del consiglio hanno raggiunto un compromesso.
Ma il nodo è un altro. L’estero crede in Tremonti, meno nel Cav. L’unisono con cui da fuori ci si è mossi per appoggiare il ministro contro la volontà del premier, la dice lunga. Berlusconi lo sa e per questo non tira la corda fino in fondo. Teme che Tremonti lasci, rendendo più vulnerabile l’Italia. La situazione è però paradossale perché ribalta le gerarchie, un po’ come avvenne nella Germania del dopoguerra tra il potente titolare dell’Economia, Ludwig Erhard, e il Cancelliere Adenauer (che però marciavano d’accordo).
Ora siamo a questo punto: governo e Parlamento italiani stanno con Berlusconi e la sua voglia di accelerazione, i mercati stranieri appoggiano Tremonti e il suo culto del freno. L’Italia sta in mezzo. Sa di ricatto e va disinnescato alla svelta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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