La «Tempesta» si è spenta tra gli effetti speciali

Il dramma shakespeariano si mescola qui alla farsa napoletana

Roboanti effetti sonori, apparizioni improvvise, intarsi coreografici dal piglio moderno, costumi sfarzosi, un Ariel proteiforme sdoppiato in due entità complementari e androgine. Non guarda al risparmio - né stilistico né economico - la spettacolare messinscena che Tato Russo costruisce intorno a La Tempesta di Shakeaspeare e presenta in questi giorni all’Argentina. Piuttosto, il regista partenopeo, spingendo il pedale di quel precipuo linguaggio scenico già sperimentato in precedenti lavori (basti citare il Sogno di una notte di mezza estate), amplifica la partitura di base con incursioni nel meraviglioso e nel fantastico, che finiscono giocoforza col restituire l’immagine di un’artificiosa féerie di ascendenza melodrammatica e ottocentesca. La vicenda del Duca/Mago Prospero (un vigoroso sacerdote del mistero alchemico, interpretato dallo stesso Russo con toni in bilico tra onnipotenza ultraterrena e, viceversa, pacatezza emotiva) e dei nobili rivali fatti naufragare sull’isola da lui stesso abitata si piega così a una lettura «rituale», che mette insieme tante cose diverse ma che in alcuni passaggi appesantisce la lieve fragilità di questo desolato canto sulla vacuità della vita: l’ultimo, estremo atto di disillusione umana che l’autore inglese ci abbia consegnato. Nel lavoro di Russo le immagini si susseguono e si sovrappongono una dopo l'altra, ricche di invenzioni e trovate: la stravaganza irrompe con audacia (pensiamo solo al mostruoso Calibano) e lo spazio per i ruoli «bassi» di Stefano e Trinculo (i bravi Massimo Sorrentino e Luigi Cesarano) regala assaggi di pura farsa napoletana. Tuttavia la sontuosità dell’insieme rischia di dissipare il cuore del messaggio e la tenebrosità di alcuni momenti sembra rimanere una caratteristica esterna, come una patina distanziante. E simile senso di distanza suscitano pure i voli dei corpi sulle altalene, i quadri viventi che emergono dal fondo, la fauna magica e incantata che sfuma veloce nella luce. I sentimenti, le paure, le illusioni non paiono più «urgenti» e anche quel Theatrum-Mundi che scatta alla fine, quando una porzione del palcoscenico si alza per alludere alla coincidenza isola/teatro (cioè vita/teatro), non basta a risarcire il sommo poeta.

Perché - paradossalmente - anche una grande macchina barocca può rivelarsi non adeguata a raccontare la vertigine del nulla. Tanto più che Shakespeare scriveva per un palcoscenico spoglio, dove tutto era evocato dal linguaggio e dove i cambi di scena spettava al pubblico immaginarli: nella testa e nel cuore!

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