Cultura e Spettacoli

Teoria e pratica (furbetta) del bestseller

Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che vende. Lo spiega un agile libretto di Luca Ricci che mette in fila tutte le regole che fanno un successo editoriale: "L’assenza di stile è un bene"

Teoria e pratica (furbetta) del bestseller

Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, e piacendo vende, o viceversa: non è bello ciò che piace ma è sempre bello ciò che vende.

Per esempio: i bestseller. In materia di libri fare le pulci alle classifiche di vendita ormai è impossibile, a nessuno frega qualcosa, dopo decenni di discussioni ci siamo stancati, e ormai sbadigliano anche le pulci. Tanto ciò che è in classifica oggi finirà su una bancarella domani, e ciò che resterà domani sono i capolavori degni di essere letti e riletti e studiati, che vendano o no, il resto è la storia dell’uovo oggi e della gallina domani. Il resto è la Storia, spietata, e quindi lasciamo credere a De Cataldo che la Recherche o L’uomo senza qualità siano libri per «puristi», vale a dire noiosi, tra vent’anni nessuno saprà più chi l’ha detto.

D’altra parte come il livello qualitativo del vendibile si sia abbassato a quanto neppure tre decenni fa era al massimo un Harmony o «paraletteratura» è evidente, e basta confrontare la complessità psicologica di feuilleton come Il conte di Montecristo, i sublimi romanzi di Dickens o di Balzac, con quanto passa il convento della fabbrica del bestseller, e tra non molto un Nobel non lo si negherà neppure alla Mazzantini. Di questa battaglia persa, piuttosto, ne fa un’analisi ironica Luca Ricci in un piccolo romanzo pubblicato da Laterza e intitolato furbescamente Come scrivere un bestseller in 57 giorni, dove un gruppetto di scarafaggi parigini con i nomi dei Beatles cerca di aiutare l’inquilino che li ospita a scrivere un bestseller, altrimenti sfratto per tutti.

Le istruzioni, disseminate in una trama zampettante si attagliano perfettamente ai cliché del vendibile, uno come Antonio D’Orrico le sottoscriverebbe una a una, c’è cascato anche Carofiglio, che firma la fascetta promozionale, deve aver preso i Beatles sul serio, in positivo.

Cos’è un bestseller? «Un libro che riescono a leggere quelli che di solito non leggono». Oppure: «Un libro idiota che risulta intelligente». Oppure: «Un libro scritto così male da sembrare un film». Meglio ancora: «Un libro che è stato scritto per vendere molto che vende molto e poi lo ristampano e vende ancora di più e tutti ne parlano perché ha venduto e dopo vende ancora un poco».
Lo stile deve essere sempre lo stesso, non deve creare disturbo al lettore, perché il lettore che legge bestseller, in quanto cliente, ha sempre ragione. L’offerta è sottoposta alla domanda, una volta si chiamava «orizzonte d’attesa», il lettore conta più dell’autore. Infatti di un bestseller, se letto, si ricorda la trama, raramente l’autore. D’altra parte se confezioni un Big Mac devi metterci dentro un Big Mac, e lo si mangia e lo si digerisce senza commentarlo. Michael Connelly o Jeffery Deaver, Clive Cussler o Tom Clancy, «fatta eccezione per qualche impalpabile differenza, sembravano scritti dalla stessa persona», e «l’assenza di stile» è fondamentale. Pertanto i personaggi saranno tanto più immortali quanto più stereotipati (di Madame Bovary non importa il bovarismo ma solo la nozione codificata di «adultera»), deve esserci molta emozione da scartare di pagina in pagina come una merendina o un Bacio Perugina (nei quali, giustamente, hanno arruolato Moccia), e molta finta riflessione («È importante far credere alla gente che stia riflettendo»).

Ciò che conta è far girare le pagine, e che «sotto la superficie non ci sia nient’altro che un’altra superficie». A riprova gli scarafaggi di Ricci mettono in fila gli incipit di Dan Brown, Stephen King, Patricia Cornwell, e in effetti sembra di leggere lo stesso libro, la stessa lingua standard, le stesse metafore prese nella cassetta degli attrezzi del mestiere di narratore di storie. D’altra parte, essendo caduta da tempo, sulle terze pagine italiane, la differenza tra letteratura e non letteratura, vigendo anzi una revanche del basso verso l’alto, e l’abolizione di ogni gerarchia estetica, si mandano i figli a scuola ma va di moda buttare giù i capolavori, fa chic: il postmodernismo inventato dalla critica, la critica usurpata dal giornalismo, il giornalismo sostituito dalla notiziabilità del libro, legittimano qualsiasi delegittimazione.

Leopardi è noioso e pessimista. Marcel Proust manca di sintesi. Hermann Bloch e Musil roba cervellotica da adolescenti invasati di metafisica, non sono paradossi, lo ha dichiarato quest’estate a Repubblica anche Alessandro Piperno, il Proust italiano di D’Orrico, il quale D’Orrico da maestro che supera l’allievo bolla come grafomania da foruncolosi adolescenziale perfino Joyce e Proust, in nome di Faletti. Sandra Petrignani, sulla mia pagina di Facebook, liquida Le benevole di Jonathan Littell come «una patacca», e così fecero da noi Orengo e D’Orrico, tanto chi ha più voglia di discutere, e su quali basi. In definitiva, cosa voleva dagli scarafaggi scrittori di Luca Ricci il pubblico dei non lettori? Farsi distrarre per qualche ora, «non pensare più alle rispettive esistenze, debolezze, smanie, fissazioni, rancori... Chiedevano un dirottamento a buon mercato». Le prescrizioni dei Beatles si adattano bene quasi a tutto ciò che funziona in libreria, non solo il genere esplicito ma anche il genere implicito, incluso il sentimentalismo edificante di Veltroni e Coelho, perché «i libri per adulti non dovrebbero essere molto diversi da quelli per bambini».

Certo, nel librino di Ricci non si prende in considerazione la moda della «realtà», che in Italia ha sempre maggior pubblico rispetto ai libri d’evasione, dove le categorie sono più palpabili e se non sono veriste sono realiste o al massimo neorealiste o postneorealiste, basta che l’old sembri sempre new. Altrimenti Gomorra, i romanzi «impegnati», i romanzi criminali che strizzano l’occhio all’attualità, i «New Italian Epic» insomma, non sapremmo dove metterli: non così profondi da essere opere d’arte, non così complessi da non essere superati dalla cronaca. Su quel fronte lo sapeva invece il sempre lungimirante Arbasino decenni fa, gira e rigira è sempre una questione di supposto verismo; dalla letteratura al giornalismo, da Fofi a Saviano, dai romanzi sul ministro della malavita alla romanzeria complottista di Wu Ming, dalla televisione ai «reality book», la minestrina ideologica della «realtà» è sempre la stessa: «Telefona continuamente il verismo. Muore dalla voglia di venire a ficcare il becco nel frigorifero e negli armadi e nei cassetti e soprattutto nel cesso: attratto dall’orribile sostanza, e non già dai libri negli scaffali. Ma per il “verismo il dottore non c’è”». Così come per il realismo «è tuttora in riunione».

E quando c’era il neorealismo, si faceva rispondere: «Quello sta sempre a scopà».

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