Terrence Malick: «Amo i film di Sordi e Totò»

da Roma

Che fosse un tipo strano rispetto agli standard di ipervisibilità imposti dalla nostra epoca di facciata, lo si sapeva. In Internet, tecnologia custode di tutto su tutti, di lui troverete sempre la stessa foto, barba bianca e immenso cappello a falde larghe. Si tratta di Terrence Malick uno dei registi di maggior culto tra i cinefili che con soli quattro film in 35 anni di carriera appartiene già alla storia del cinema (La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World - Il nuovo mondo). La mitica maniacalità nel realizzare un film così come la riservatezza e l'isolamento ostinato ne hanno fatto una leggenda (nella notte degli Oscar del 1999, candidato alla regia per La sottile linea rossa, nel riquadro accanto ai volti degli altri colleghi appariva solo la sua sedia da regista con il nome dietro).
Non sappiamo come la Festa sia riuscita a convincerlo a incontrare il pubblico ma le condizioni da lui imposte dimostrano tutta la sua coerenza ai limiti della fobia. Quindi vietati telefonini, macchine fotografiche e apparecchi di registrazione. In sala una voce avvertiva, come si trattasse della proiezione dell'ultimo blockbuster, che «il personale antipirateria sorveglierà sullo spegnimento di ogni apparecchio elettronico». Telecamere della Festa compresa. Tanto che della serata non rimarrà nessuna traccia per i posteri ma solo il ricordo di pochi fortunati che potranno dire «io c'ero». Altra condizione indispensabile il buio in sala perché Malick è terrorizzato dal pubblico a cui non ha concesso di fare domande. E così è stato. Introdotto dai curatori Antonio Monda e Mario Sesti, che hanno intimato agli spettatori di stare tranquilli come a una «conversazione privata in casa perché lui è straordinariamente timido», il regista statunitense nato a Waco in Texas nel '43, considerato il J. D. Salinger del cinema (ma per rimanere in tema basterebbe citare Stanley Kubrick), seduto in un angoletto del palco, lungo cappotto nero, ha parlato a sorpresa soprattutto dell'amore per il cinema italiano, da Totò ad Alberto Sordi, passando per Ermanno Olmi. Su Totò: «Un grandissimo comico come Buster Keaton. Ha un volto su cui fa capolino la morte ma che ti fa ridere. Il suo legittimo erede è Roberto Benigni che come Chaplin riesce a esprimere gioia e allegria insieme a una grande melanconia».
Alle spalle di Malick scorrono le immagini di film della commedia all'italiana come Sedotta e abbandonata di Pietro Germi: «Qui l'onore per la famiglia è molto importante tanto che sembra appartenere ad un'altra epoca ma c'è un tipo particolare di umorismo che amo. Non quello che ti fa ridere forte ma quello che ti dà una sensazione di calore, la stessa che queste scene emanano e che ti fa sentire bene. Proprio come accade con Alberto Sordi in Lo sceicco bianco di Fellini».

Infine Il posto di Ermanno Olmi: «Ho riflettuto su quello che provavo da giovane quando il mondo si restringe intorno a te e ti imprigiona come accade al protagonista di questo film incredibilmente lieve e raccontato in punta di piedi».

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