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Terrore islamico in Thailandia Decapitato maestro buddista

Oltre 700 morti in 18 mesi per la violenza separatista

Maria Grazia Coggiola

da New Delhi

L’ultimo, in ordine di tempo, a fare le spese della polveriera islamica nel Sud della Thailandia è stato un insegnante in pensione la cui unica colpa era quella di essere buddista. Kamol Chunetr, 65 anni, è stato decapitato a un paio di chilometri da casa sua nella provincia di Pattani, al confine con la Malaysia, dove vive la minoranza musulmana thailandese e dove da tre decenni è in corso una ribellione secessionista. La testa mozzata è stata lasciata vicino a una stazione di polizia abbandonata, il corpo in un capanno a un centinaio di metri di distanza. Secondo la polizia, gli assassini del maestro buddista avrebbero lasciato una lettera di avvertimento: «Per ogni militante islamico che arrestate, uccideremo due buddisti». Una settimana fa era stato incarcerato un leader studentesco musulmano con l’accusa di aver fomentato disordini contro la polizia.
A subire la stessa cruenta sorte di Kamol sono stati già altri quattro buddisti da quando, circa un anno e mezzo fa, è riesplosa la violenza dei gruppi separatisti musulmani costringendo il governo di Bangkok a intervenire con la legge marziale e con una repressione che di fatto ha innescato una spirale di attentati contro funzionari statali, insegnati e poliziotti. Le cinque decapitazioni di buddisti sono solo la punta più cruenta di un iceberg che ha visto il massacro di 700 persone negli ultimi 18 mesi nelle tre province meridionali ribelli di Pattani, Yala e Narathivat. Una scia di sangue di cui poco o quasi nulla è emerso sulla stampa internazionale, anche per una certa reticenza del governo, preoccupato per la sorte dell’industria turistica, soprattutto ora dopo la catastrofe dello tsunami. Nello stesso giorno del macabro ritrovamento dei resti dell’insegnante buddista, sono stati uccisi da colpi di pistola quattro musulmani in tre diversi incidenti.
La Thailandia, monarchia al 90% buddista (unico Paese del sud-est asiatico non colonizzato), nel 1902 decise di occupare cinque province semi indipendenti della vicina Malaysia, sottraendole agli inglesi. In queste zone vivono due milioni e mezzo di musulmani, il 4% della popolazione, che per lingua, cultura e etnia non hanno nulla a che vedere con i thailandesi e che dagli anni 70 hanno iniziato a rivendicare l’indipendenza da Bangkok. Il principale gruppo separatista, Pattani united liberation organization (Pulo), smantellata nel 1996, si è frantumata in una decina di sigle, alcune delle quali legate ad Al Qaida. Nel gennaio del 2004 uno di questi gruppi ha attaccato un deposito di armi della polizia a Narathivat.
Da allora è stato uno stillicidio di attacchi contro obiettivi governativi e posti di polizia. Il premier Taksin Shinawatra è intervenuto con il pugno di ferro contro le province ribelli con misure di repressione, considerate da alcune sproporzionate. Il 28 aprile 2004 a Pattani la polizia uccise oltre 100 militanti in diversi scontri a fuoco, mentre nell’ottobre le forze di sicurezza caricarono una folla di dimostranti causando 85 morti. L’Organizzazione della Conferenza islamica ha inviato una delegazione sul luogo dei massacri per raccogliere informazioni in vista della riunione alla fine del mese nello Yemen.
Il primo ministro di recente ha lanciato un ramoscello d’ulivo, promettendo interventi per lo sviluppo economico e per il sistema scolastico del Sud musulmano, rimasto arretrato e escluso dal benessere del Paese. Il problema è però complesso. Oltre all’integralismo islamico, che esiste anche grazie a una rete di scuole coraniche finanziate dai sauditi, il territorio è in mano ai signori della droga e del traffico della prostituzione, disposti a ospitare e ad addestrare militanti stranieri di Al Qaida.

Il presunto capo della Jamaah Islamiyya (filiale asiatica di bin Laden), l’indonesiano Hambali, accusato della strage di Bali, è stato catturato in Thailandia lo scorso agosto.

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