"Il terrorismo sogna il paradiso ma crea l'inferno"

Lo storico spiega il legame tra violenza e politica in Italia

La vicenda che ha portato alla genesi del terrorismo delle Brigate Rosse è molto complessa. Lo scrittore Alessandro Bertante l'ha raccontata nel suo nuovo romanzo Mordi e Fuggi (Baldini+Castoldi) di cui Alessandro Gnocchi scrive in queste pagine. Su come sia nato e cresciuto questo «partito armato» abbiamo parlato anche con Paolo Buchignani storico contemporaneista che ha rintracciato il filo rosso della violenza politica nel nostro Paese nel suo saggio Ribelli d'Italia. Il sogno della Rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse (Marsilio). Un lavoro storiografico che mira a delineare tendenze profonde e durature all'interno dell'«insurrezionalismo» che ha trovato, nella nostra penisola, un secolare terreno di coltura.

Professor Buchignani come ha fatto il Sessantotto, un movimento di contestazione che poteva essere anche salutare e pacifico, a evolvere verso il terrorismo?

«Guardi le rispondo a partire da un'idea che Manzoni ha espresso nella sua Storia incompiuta della Rivoluzione francese. Ovvero che il Terrore di Robespierre non è una degenerazione del giacobinismo ma la sua logica conseguenza. C'è un filo rosso che parte dal giacobinismo e arriva dritto sino alla contemporaneità».

Nello specifico del Sessantotto?

«Il '68 non è durato un anno ma venti. Il punto di partenza è il 1956 quando, con l'invasione dell'Ungheria, molti intellettuali si sono staccati dal Pci. Alcuni si sono avvicinati alla socialdemocrazia o al liberalismo, come De Felice, altri, come Alberto Asor Rosa o Mario Tronti, si spostarono su posizioni di sinistra più estrema, spesso vicine al maoismo. Furono loro a creare un incunabolo delle idee del Sessantotto. Alcune delle idee, che presero forma in quegli anni, miravano a cose altamente condivisibili, come lo statuto dei lavoratori, la parità di genere, una maggiore libertà personale, maggiori tutele sociali. Ma c'era in alcuni l'idea, quasi religiosa, di una palingenesi di un panpoliticismo totalitario che proprio nel giacobinismo ha la sua origine».

E quindi?

«E quindi per usare le parole che usò Salvemini nel 1946: Se in questo mondo, pretendendo un paradiso impossibile, aboliamo il purgatorio, andremo a finire senz'altro all'inferno. Molti sotto la spinta di questi cattivi maestri, alcuni sia chiaro furono cattivi maestri in modo assolutamente involontario, e riallacciandosi alla tradizione del sindacalismo rivoluzionario, videro nel capitalismo il male assoluto, attaccarono tutti quelli che, nel Psi e nel Pci, volevano le riforme. Iniziarono a vedere nella violenza la levatrice della Storia. Con queste premesse fu facilissimo passare alla violenza di piazza e, dalla violenza di piazza, alla lotta armata nel nome del popolo. Un popolo che si pensava come uniforme e inerte. Come una prateria da incendiare con le idee prodotte da una élite. C'è una linea di continuità, lo ha ben evidenziato Nicola Matteucci, che lega l'interventismo italiano prima della Prima guerra mondiale, il primo fascismo e il brigatismo. Sono tutti figli a destra o a sinistra, del sindacalismo rivoluzionario, che ha fatto presa in un Paese socialmente arretrato».

Perché, fortunatamente, le Brigate Rosse, a differenza di altri giacobinismi non sono riuscite a portare a termine il loro progetto eversivo?

«Come ha detto l'ex brigatista Patrizio Peci: Per fare la rivoluzione ci vuole la fame. In Italia c'era una situazione complessa ma non certo la fame. Il riformismo, quindi, fu profondamente capito e appoggiato dalla classe operaia, dalla piccola borghesia, dai sindacati. Pensi a operai come Guido Rossa, che era comunista, le Brigate rosse gli hanno sparato perché era un riformista».

Da che ambiente sociale arrivavano i brigatisti?

«Venivano per lo più da un ambiente borghese, erano figli di papà come diceva Pasolini. E come formazione non erano necessariamente vicini al comunismo. Ad esempio Giorgio Semeria veniva dal mondo cattolico e aveva fatto volontariato in Sud America.

Molti confusero l'Italia con una dittatura sudamericana e pensarono di esportare qui rivoluzioni che magari erano giuste là. E siamo di nuovo al sogno della palingenesi, alla visione religiosa della politica, che vuol spianare le gobbe della Storia e che non vede la pluralità».

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