Per essere un «lupo solitario», quel giorno urlava come un capobranco Mohamed Game, l’aspirante kamikaze che lunedì si è fatto esplodere davanti alla caserma Santa Barbara in piazza Perrucchetti. Parlano chiaro le immagini televisive che lo hanno ripreso il 20 settembre, giorno della festa di Id Al Fitr (la fine del Ramadan).
Alla Fabbrica del Vapore di via Procaccini Daniela Santanchè è già stata colpita, mentre manifesta chiedendo alla polizia di identificare le donne coperte dal burqa. Dopo le tensioni e l’aggressione il clima si è in parte tranquillizzato. E Game è lì, davanti al teatro Ciak, che tratta con i giornalisti una possibile intervista alle donne riunite in un’ala del tendone. Fra loro non c’è la moglie, ma Game discute con il cronista di Telelombardia, usando la prima persona plurale, il noi di chi rappresenta anche gli altri. «...Le donne, non vogliono essere intervistate...da un uomo...punto e fine» risponde Game, veste candida, capelli corti rispetto alle foto circolate in questi giorni. «Noi non possiamo autorizzare una cosa che non è stata utilizzata dalle stesse donne». E ancora: «Il vostro imam ha detto che potevamo». «No, no, non vogliono, vi dico io, hanno chiesto. È un discorso di privacy...».
Insomma Game è uno dei pochissimi che esce da una folla di 2mila fedeli riniti a pregare nel cortile del Ciak. Sta nel cordone del servizio d’ordine interno, e le fotografie lo ritraggono mentre si agita per la presenza della Santanchè e fronteggia gli agenti della Digos. La ex parlamentare lo ricorda bene: «Ho riconosciuto perfettamente l’attentatore della caserma perché era lo stesso che quella domenica, mentre io manifestavo contro il burqa, era il capo di quella comunità. Ho trattato con lui, da lui ho ricevuto i peggiori insulti, questo per smentire Shaari, il capo della comunità di viale Jenner, che aveva detto che era un personaggio ai margini della loro comunità, poco conosciuto».
In effetti Shaari, nella mattinata dell’attentato, subito nega che ci sia un «legame» fra i centri di preghiera milanesi e l’azione del kamikaze. E rilascia una dichiarazione di «condanna netta di questo gesto», dicendosi «a disposizione delle forze dell’ordine se avranno bisogno di collaborazione». Dopo 2 ore interviene nuovamente per ammettere che «Game veniva a pregare anche da noi» anche se «bazzicava un po’ dappertutto», «veniva a pregare e se ne andava, non è che stava qui fare comizi». Per poi aggiungere: «Lo conoscevo di vista, una volta era venuto a presentarsi e avevamo fatto una chiacchierata».
La dirigenza della Casa della cultura islamica di via Padova esclude che Game si sia mai fatto vedere nel centro. D’altra parte nella Casa il potere è ripartito fra quattro organi statutari, e gli incarichi sono attribuiti con metodo democratico. Il direttore (che può essere anche una donna) ha addirittura un limite di due mandati, e si avvale di collaboratori e delegati. In viale Jenner, il secondo centro milanese per anzianità, la dirigenza è sempre stata nelle mani della stessa persona, che condivide il potere direttivo e la rappresentanza solo con l’imam, il discusso Abu Imad condannato in secondo grado per terrorismo. Gli altri dirigenti milanesi cittadini ammettono che loro un imam condannato lo avrebbero già cacciato. Shaari invece lo difende. E anche ieri ha parlato del suo «indubbio prestigio». Oltre a Imad e Shaari (e pochi altri), tutto il resto in viale Jenner non è affidato a un’organizzazione vera e propria. Lo dice uno dei fedeli: «Fa parte della mentalità araba il fatto che ciascuno di loro si senta investito di una missione, si direbbe divina, e ciascuno si sente in dovere di fare in prima persona. Come Game quel giorno». Shaari va avanti. Ma ora sembra isolato. Il 20 settembre la Curia inviò il delegato ai Rapporti con l’Islam, monsignor Alberti, a salutarlo con grande cordialità, consegnando nelle sue mani una lettera di Tettamanzi. Un giorno «maledetto».
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