Ancora questo Diego: stesso vestito, stessa cravatta, stessi occhi. Le braccia, la lingua che esce: tre a uno. Tevez, Higuain, Tevez. Messi? Ancora a zero. Non importa, dicono. Certo che importa, invece. Perché quando arriverà anche il gol di Leo allora Diego sarà felice due volte. Ieri gli aveva detto: «A me nessuno ha mai detto dove giocare, io non lo posso dire a te». Messi fa quello che vuole, tranne segnare. Il Messico è archiviato. La quarta vittoria di seguito pure. Facile? Per venti minuti Maradona brucia i neuroni: tutto verde nella metà campo argentina, tutti messicani a caccia di gloria. Maledetti come stanno bene in campo. Una traversa, un tiro fuori di niente. Paura. Grazie Rosetti, grazie Italia: Maradona bacia il rosario che stringe nella mano e bacia anche l'arbitro italiano. Troppo irregolare il primo gol di Tevez: l'ha visto il mondo, forse l'hanno visto anche arbitro e guardalinee sullo schermo dello stadio. Eppure gol, forse quello che terrà Rosetti lontano dalla finale, perché le polemiche ci saranno e con loro arriveranno i dubbi sulla terna italiana.
A Diego non importa. Lui va, a prescindere. Senza dare un gioco, perché questa squadra non ne ha bisogno: mette in campo quelli che considera i migliori e poi li supporta dalla panchina. Non deve insegnare la diagonale, non deve impostare uno schema: in un mese di Mondiale, Diego gli chiede di fare solo quello che fanno di solito. Semplice l'Argentina. Un barocco che funziona, un gruppo di solisti che sembra una squadra. Diego s'arrabbia solo quando la situazione lo richiede: salta in aria se Higuain vede Tevez solissimo e non gli passa per istinto egoista. Poi torna giù, si consulta con lo staff, guarda indietro verso la panchina: sembra uno di loro, non il capo. Consigliatemi, vi prego. Non è il professore, solo il più grande degli allievi, una specie di ripetente fenomeno che gli altri devono ascoltare, un oracolo da bordo campo. Alza il pugno, perché è finita anche questa. Quattro su quattro, l'unico a riuscire in questo Mondiale a non pareggiare neanche una partita.
Adesso gli tocca la Germania. Ricordi, Diego? Messico '86, poi però anche Italia '90. Questa squadra non assomiglia a nessuna delle due. Forse è peggio, perché è tosta e però tecnica, è giovane, è brillante. Maradona aspetta. Parla ancora del Brasile come favorita e dell'Argentina come sorpresa. Sorpresa di che? Lo sappiamo noi e lo sa lui: questa squadra è la migliore Nazionale albiceleste degli ultimi vent'anni. La migliore dopo di lui. La migliore, forse perché cè lui. Quello che sembrava un limite adesso è il punto di forza. Guarda alla fine del primo tempo, quando scoppia la rissa dietro la sua panchina. Diego tranquillo, come una persona diversa da quella che è sempre stata. L'altro lui sarebbe saltato a fare a cazzotti: per se stesso e per il suo Paese. Questo tiene ancora in mano il rosario e sembra contare fino a venti prima di muoversi. Non c'è spazio per l'errore, né per l'arroganza. Ha imparato persino l'umiltà. Forse è finta, ma sembra vera. I risultati trasformano un matto in un genio, un isterico in un tranquillo. La barba brizzolata gli dà il tocco di saggezza che non ha mai avuto. L'impressione che fa è quella di un uomo che ha visto la fine e s'è spaventato. Allora dà qualcosa agli altri per sentirsi meglio con se stesso. In campo è lui, però. Corre su quei tre metri e mezzo che la Fifa gli permette di percorrere davanti alla panchina. Esulta, urla, carica.
Non è la formazione migliore possibile, ma è la sua: quando toglie Tevez per Veron il mondo si chiede se sia veramente lui. Un centrocampista per un attaccante. Possibile? La panchina cambia il modo di pensare, ma non quello di stare al mondo. Vuole un altro gol, Diego. Carlitos ne ha già fatti due ieri sera. Non gli servono i suoi, neanche quelli di Higuain. Dov'è Leo? Manca nel tabellino, anche se non manca nel gioco. Messi è un faro che illumina anche l'uomo che ha illuminato tutto il resto del mondo. Si parlano senza guardarsi.
Tevez manda a casa il Messico e Rosetti
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