Ti piace alta o pop? Ecco la cultura degli ultimi due secoli

Un volume del sociologo Paul Di Maggio mette in luce le strategie sociali e le forme dell'imprenditorialità che regola musei, teatro, musica lirica e popolare negli Stati Uniti dall'800 a oggi

La cultura è un capitale spendibile sul mercato sociale, anzi è un bene multiforme che assume profili e connotazioni diverse a seconda di come viene organizzato e strutturato. Le forme del sapere, ma soprattutto i modi per il «consumo» di beni culturali hanno avuto e continuano ad avere ancora oggi caratteristiche peculiari, proporzionali non soltanto al modo in cui esse vengono proposte ma anche alle strategie con le quali sono pensate. Il rapporto tra pubblico e opera d'arte, in sostanza, risente di vere e proprie tecniche che spesso all'interno di questo settore differenziano segmenti di differente accessibilità. È proprio questo il diaframma che separa «cultura alta» e «cultura popolare», due generi di una stessa famiglia con i quali ogni cittadino si imbatte nella sua vita quotidiana al momento di dedicare una parte del proprio tempo allo svago, quando con esso si intende il tentativo di aggiungere un apporto ulteriore al proprio bagaglio di conoscenze, sfruttando qualche ora al termine del proprio lavoro.
Ebbene un'analisi precisa di queste particolarità è quella che emerge da uno studio recente e importante, «Organizzare la cultura» (Il Mulino, pp.272, 26 euro) opera di Paul Di Maggio, uno dei più apprezzati sociologi d'oltreoceano, che si è specializzato su temi riguardanti proprio il mondo culturale con una particolare attenzione verso la managerialità che ad esso sovrintende. Quello che Il Mulino ha consegnato alle stampe, agli scaffali della libreria e a studiosi e appassionati è un testo che prende in esame il caso americano ma mette in luce una falsariga applicativa che potrebbe valere anche al di fuori degli Stati Uniti.
Certo il caso di Boston, esaminato nei dettagli attraverso una duplice riflessione che prende in considerazione il caso del Fine art museum e quello della Philarmonic orchestra da un lato e quello di teatro e danza dall'altro, appare profondamente americano nella sua essenza e nel suo svolgimento, oltre che nella sua applicazione. Tuttavia, una delle tesi, esposte da Di Maggio, quella relativa alla sacralità del confine tra cultura alta e cultura popolare si presta ad essere applicato come modello ad ambienti differenti da quello nordamericano. Sacralità, precisiamo subito, non ha nulla a che vedere con la religiosità e lo spessore spirituale che ad essa attiene, sacralità è piuttosto l'aura (per usare un termine caro a Walter Benjamin) dell'ispirazione sacra che favorisce la creazione di un'opera d'arte.
È insomma un'accezione profondamente laica di un termine normalmente appartenente alla pietas religiosa. In questo senso tuttavia perderebbe quel significato che invece ad esso Di Maggio intende attribuire. Ne escono riflessioni che illustrano le dinamiche alla base della nascita del Fine art museum e delle problematiche della Boston Philarmonic orchestra, due casi di espressioni di «cultura alta» nata per iniziativa dei bramini, classe sociale dell'elite bostoniana.
Sono comunque tutti i vari saggi che compongono il volume a rendersi appetibili per comprendere come anche oggi, a qualsiasi latitudine, l'imprenditorialità culturale abbia leggi ferree e dinamiche precise: Di Maggio se ne occupa nei primi capitoli prendendo in considerazione il caso della musica popolare, le attese che intorno ad essa vengono create e le risposte che la stessa managerialità si prepara a fornire. È storia di oggi, è storia di sempre.

È la storia che verrà, ma è soprattutto una storia quotidiana, fatta di quei piccoli gesti comuni a tutti noi, dietro ai quali si nasconde un tessuto sociale ed economico al quale troppo spesso si dedica scarsa attenzione.

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