Dicevano spavaldi: «Ibra non si muove da qui, perché nell'intera galassia non esiste un club in grado di pagarlo come il nostro». Dicevano pure: «Preferiamo avere in squadra un giocatore così, che ti dice le cose in faccia, piuttosto che chi bacia la maglia spergiurando amore eterno e poi se ne va da un'altra parte». E aggiungevano: «Non solo resta, ma essendo un professionista integerrimo (?) ci farà rivincere il quarto scudetto consecutivo e diventerà pure capocantiere di Champions, così ci portiamo a casa pure quella».
Fino all'altro ieri gli interisti manifestavano spavalderia, di fatto avevano una paura fottuta di perdere Ibrahimovic. Facevano i duri («se gli dovessero venire altri mal di pancia, piuttosto lo chiudiamo nelle toilette di S. Siro ma il contratto glielo faremo rispettare») però - pur di non veder andare via colui che il mio amico Gianluca Rossi definiva con tracotanza bauscia «l'arte, la scienza, l'astronomia, praticamente un semidio» - si son fatti trattare peggio delle sguattere: gestacci e sparate a go-go da un malato di superomismo.
Non sono riusciti a cambiarlo di una virgola nemmeno con 12 milioni l'anno, Ibra è rimasto il solito Ibra. Il medesimo che avevamo conosciuto alla Juve, uno che quando decide di andarsene se ne va.
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