La timidezza del male Hitler visto da vicino

Il diplomatico François-Poncet ci ha lasciato un ritratto del dittatore dettagliato e rivelatore

La timidezza del male Hitler visto da vicino

Nella sala da pranzo della «tana del lupo», presso Rastenburg, nella Prussia Orientale, il 2 luglio 1942, durante il pasto di mezzogiorno, Adolf Hitler, indossati gli occhiali d'oro, si mise a leggere i dispacci ricevuti. A un certo punto, di fronte ai commensali silenziosi ma attenti, cominciò a parlare dei diplomatici e disse che sarebbe stato lieto se tra i suoi ambasciatori vi fosse stato un uomo della statura (...)

(...) di François-Poncet: «Questo francese precisò col suo spirito universale non solo è un convinto rappresentante della cultura europea, ma è anche uno schermidore tutt'altro che disprezzabile sulla scena diplomatica». Aggiunse che questi «non si lasciava facilmente ingannare nella valutazione dei fatti». Le parole del Führer dovettero suscitare non poca meraviglia sia perché Hitler non si lasciava andare facilmente a giudizi simpatetici nei confronti dei diplomatici, in particolare quelli stranieri, sia perché François-Poncet, subito dopo gli accordi di Monaco del 1938, aveva lasciato, dietro sua richiesta, Berlino e si era fatto accreditare come ambasciatore a Roma dove sarebbe rimasto fino al momento dell'ingresso in guerra dell'Italia il 10 giugno 1940.

André François-Poncet, uno tra i più importanti esponenti del mondo diplomatico francese, era un profondo conoscitore della lingua e della cultura tedesche ed era stato ambasciatore a Berlino per sette anni, dal 1931 al 1938. Aveva assistito all'agonia della Repubblica di Weimar, alla presa di potere di Hitler, al consolidamento del regime nazionalsocialista. Quest'uomo, nato in una famiglia di magistrati, aveva scoperto la diplomazia relativamente tardi ma era stato nominato ambasciatore a Berlino a poco più di quaranta anni. Era di bell'aspetto, il volto ovale, la fronte alta e spaziosa, lo sguardo ironico e i baffi ben curati alla Poirot. Ma, soprattutto, con la bombetta, il papillon perfettamente annodato, il bastone da passeggio, era di raffinata eleganza, nei modi come nell'abbigliamento: quasi il prototipo di quel grande borghese di buon gusto e antica tradizione, che non era certo il modello preferito da Hitler. Eppure il Führer, quando si trovò a parlare a quattr'occhi con l'ambasciatore francese, tirò fuori un insospettabile garbo, frutto di innato talento demagogico, che lo fece apparire all'interlocutore cortese e persino gradevole.

Al periodo trascorso in Germania François-Poncet dedicò uno splendido volume dal titolo Souvenirs d'une ambassade à Berlin 1931-1938 (Perrin, pagg. 514, euro 24) che, dopo decenni di assenza dalle librerie, è stato riproposto con prefazione e note di Jean-Paul Bled. Si tratta non tanto di un'opera memorialistica quanto piuttosto di un saggio storico vero e proprio che, con penna felice, non soltanto ricostruisce i grandi avvenimenti dall'ascesa di Hitler alla notte dei «lunghi coltelli», dai Giochi olimpici del 1936 alla Conferenza di Monaco ma fa rivivere la temperie politica e psicologica di quegli anni. È una di quelle poche opere che riescono, meglio di quanto non facciano ponderosi studi accademici, a far capire un'epoca e conoscerne i protagonisti.

François-Poncet, che nel secondo dopoguerra sarebbe tornato ancora in Germania come ambasciatore a Bonn e che nel 1952 fu chiamato a far parte dell'Académie Française, aveva il dono di una scrittura vivace ed evocatrice. Basti pensare alle pagine nelle quali descrive la giornata di Potsdam, il 21 marzo 1933, quando Hitler, da poco nominato cancelliere, con una cerimonia fastosa, là dov'era la tomba di Federico il Grande, ricevette dal vecchio maresciallo Hindenburg, dignitoso e solenne nell'uniforme militare con le decorazioni appuntate sul petto e lo sguardo assorto ma triste, quasi una investitura ufficiale: Hitler, aspetto modesto e tratti volgari, impacciato in una giacchetta non ben calzante, apparve come un «timido nuovo arrivato che viene introdotto dall'importante protettore in una società che non è la sua». Quella cerimonia lasciò l'impressione che il III Reich volesse diventare il continuatore del II Reich dopo il seppellimento della Repubblica di Weimar e sembrò segnare il momento di un magico flirt con la borghesia, quasi il preludio del «miracolo dell'unità tedesca». Qualche tempo dopo, il 1° maggio, sul campo d'aviazione di Tempelhof, a Berlino, questo «miracolo» si materializzò: al calare della sera, tra i riflettori accesi che illuminavano una folla ondeggiante, comparve Hitler, «in piedi sulla sua autovettura, il braccio teso, il volto immobile, un po' tirato» e venne «accolto da lunghe grida di giubilo, che erompevano possenti da migliaia di voci». La scena, anche coreograficamente ricorda un solenne rituale religioso: «Hitler sale sulla tribuna, si spengono i riflettori, ad eccezione di quelli che avvolgono il Führer in un raggiante alone luminoso, sicché sembra che egli galleggi, a bordo di una imbarcazione favolosa, sui flutti della folla. Regna un silenzio degno di un tempio. Hitler parla».

François-Poncet colse subito il carattere di «religione secolare» del nazionalsocialismo e cercò di spiegarsene il successo analizzando l'«ideologia hitleriana», nella quale c'era ben poco di originale, perché le idee di Hitler non erano altro che un «vestito di Arlecchino, un pot-pourri» di tutte le correnti intellettuali che avevano attraversato il XIX secolo tedesco. Il talento di Hitler, autodidatta e senza studi approfonditi alle spalle, stava tutto nella capacità di rendere digeribili all'uomo della strada, alle «intelligenze elementari» concetti semplificati che avevano il loro centro nel pangermanesimo ed erano espressione di nazionalismo frustrato e umiliato.

La capacità descrittiva di François-Poncet raggiunge il culmine nei capitoli dedicati alla Conferenza di Monaco del 1938. Qui incontriamo un Mussolini «tozzo, stretto nella sua uniforme, la maschera cesariana, con aria di protezione, a suo agio» che si aggira seguito da Galeazzo Ciano, «grosso giovanotto vigoroso, sempre attorno al suo padrone, ufficiale d'ordinanza piuttosto che ministro degli Affari Esteri». Vediamo Chamberlain «un poco grigio, curvo, le sopracciglia folte, i denti sporgenti, il volto bollicinoso, le mani arrossate dai reumatismi, un tipo di vecchio uomo di legge britannico» e un Hitler che invece appare «amabile, nonostante la voce burbera e contadina» ma anche «turbato, agitato, assai pallido» e impossibilitato a parlare con gli invitati dalla barriera linguistica. François-Poncet ebbe l'impressione che Mussolini dominasse il Führer: «Accanto a lui, Hitler lo cova con lo sguardo; ne subisce l'attrazione, è come affascinato, ipnotizzato; quando il Duce ride, egli ride; se il Duce si acciglia, egli si acciglia; è un vero spettacolo di mimetismo, che doveva lasciarmi una impressione duratura».

Il diplomatico francese, già da tempo in difficoltà in Germania, si convinse che si dovesse giocare la carta di un Mussolini acquisito alla causa della pace e in grado di influenzare le decisioni di Hitler. Anche per questo, oltre al disagio di dover vivere in una Germania ormai proiettata verso la guerra, chiese ed ottenne di essere trasferito a Roma.

Era un calcolo sbagliato per una missione impossibile. E fu proprio lui che, per ironia della sorte, nel pomeriggio del 10 giugno 1940, ricevette dalle mani di Galeazzo Ciano la dichiarazione di guerra al suo Paese, alla Francia.

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