Cultura e Spettacoli

TINTO BRASS «Giro sempre lo stesso film? Lo faceva anche Hitchcock»

Visita sul set di «Monamour», l’ultima pellicola che il regista sta realizzando a Mantova

Maurizio Cabona

da Mantova

Adulterio mantovano nel nuovo film di Tinto Brass, ma non è il romanzo omonimo di Giovanni Nuvoletti a ispirarlo. La sceneggiatura di Brass - che sarà «anche e soprattutto montatore» come gli piace sottolineare - viene da Amare Léon di Alina Rizzi, che il regista definisce «romanzo d’una pollastrella per pollastrelle». Interpreti: Anna Jimskaya (lei), Max Parodi (lui), Riccardo Marino (l’altro) e Nela Lucic (l’amica). Il film s’intitolerà Monamour, con una crasi dove contano specialmente le prime quattro lettere e il loro senso in dialetto veneto. Milanese e dirigente editoriale è invece il marito tradito - sotto gli affreschi pagani di Giulio Romano - con un francese durante il Festivaletteratura. Ciò le ha suggerito Mantova come sfondo, signor Brass? «Macché. L’ho scelta perché con Parma e Reggio forma il triangolo della gnocca: sensualità, cibo, pittura, sesso, acqua, piumini dei pioppi».
Brass parla a un tavolo della Bocciofila, quartier generale della troupe. Intorno a noi, attori in abito di scena - discinto quello delle donne - mangiano tortelli. Col buio ci si sposta a Palazzo Tè. Camicia nera, giacca azzurra, pantaloni ocra, sciarpa sottile, l’anarchico Brass avanza con autoritaria naturalezza.
Nel giardino, banchetti di libri e gigantografie di scrittori: Bellow, Quasimodo, perfino Tabucchi. Un gruppetto di personaggi cosmopoliti è inquadrato per la prima scena della serata: con l’enfasi della loro fatuità pronunciano frasi di circostanza e osservazioni di costume. Brass è corrosivo. Colto, disprezza gli intellettuali e gli eruditi e si prende sul serio solo quando passa dalla macchina da presa alla scena, per palpare glutei: intende così il digitale. In tali frangenti, soprattutto alle feste, per uscire dall’imbarazzo le donne ridono nervosamente. Ma qui nessuna ride mentre Brass approfondisce quanto può la conoscenza.
Filmando con una sola macchina da presa, Brass deve inquadrare ora questo, ora quella. Ogni volta la scena va ripetuta. Una delle battute è - appena modificata - la risposta che Brass m’aveva dato al ristorante, alla mia prevedibile domanda: il film sarà hard? Non lo sarò io, ma come me lo ha spiegato lo saprete solo all’uscita del film, perché certo lessico diventa scurrile per iscritto.
Intanto, pronunciate le fatali battute, la lingua di un’attrice guizza come quella di un’iguana. Si chiama enfatizzare il ruolo. Breve pausa, le lingue rientrano. Dalla scena del brindisi si passa a quella del ballo. Intanto un attore bruno stringe un’attrice bionda: euforico, tenta anche lui di fare l’iguana, ma lei non collabora, almeno finché non vien dato il ciak.
Per darmi un atteggiamento scambio due parole con la Jimskaya, uzbeka di passaporto, bionda di chioma, nuda sotto l’abito di taglio indefinibile, scollato dove non è scosciato. Lei ha l’aria di chiedersi che cosa ci faccio qui. Con uno sguardo percorro lei, con un altro la Lucic, coperta da un bustier, uno string e da un velo sul medesimo, mentre - è la parte - danza con un partner che non incontra alcuna difficoltà nello stringerla. E io ripenso a Jean Rochefort, che mi diceva di certe scene di amplessi: «E mi pagano pure!».
Le riprese proseguiranno fino all’alba. Mi congedo da Brass, che precede una domanda con una risposta: «Si dice che faccio sempre lo stesso film. Ma questo valeva anche per Ford e Hitchcock». Allora gli chiedo, come Costanzo, se abbia un rimpianto. «Aver preferito girare L’urlo anziché Arancia meccanica». Ma Brass non è tipo da guardarsi indietro. Ora è contento che la Biennale d’Arte di Venezia onori Io, Caligola, a suo tempo oggetto di infinite vertenze legali con il produttore Bob Guccione (quello di Penthouse) per il montaggio definitivo.
Mi saluta chiamandomi «intellettuale», pensando che la beffa mi suoni lusinghiera.

Infine lui, che ha tanto talento da sprecarlo, cita Truffaut e mi dona la fine dell’articolo: «Il cinema dovrà scusarsi di come ha trattato il sesso».

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