Controcultura

Todaro il mago del mare rimasto sommerso per più di ottant'anni

Il "Comandante" di sommergibili che salvò i naufraghi merita il ricordo. Non la retorica

Todaro il mago del mare rimasto sommerso per più di ottant'anni

Sembra un romanzo ma è vero. Combatteva con la schiena fracassata e il corpo chiuso dentro un busto d'acciaio. Sembra un romanzo ma è vero. Lo chiamavano Zoroastro o il Mago Baku per la sua passione per le lingue orientali e lo yoga, ma davvero il suo istinto di guerriero aveva qualcosa di istrionico, la sua sfida al pericolo qualcosa di alchemico. Una magia interrotta solo da una raffica di mitraglia che lo colse nel sonno.

Salvatore Todaro (1908-1942), il petto appesantito da un numero strepitoso di medaglie (tre d'argento e due di bronzo da vivo, una d'oro da morto) è, per biografia e carisma, l'eroe perfetto per qualunque racconto, film o romanzo. Anche perché al comando dei sommergibili aveva un piglio cavalleresco, che può anche essere un limite tattico, ma è sempre un buon viatico per la leggenda. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi scriveva Brecht, e l'Italia nella Seconda guerra mondiale è stata molto sventurata: nella mancanza tecnologica e logistica si suppliva col coraggio e col sangue. Ma ancora più sventurata è la patria che gli eroi se li dimentica molto molto a lungo (se si esclude la memoria di corpo coltivata dalla Marina o qualche saggio di nicchia). Quindi è sicuramente bene che adesso sia in libreria un romanzo a quattro mani firmato da Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi dal titolo Comandante (Bompiani, pagg. 152, euro 16).

Racconta, con le libertà che è giusto si prenda un romanzo, e che sono dichiarate a fine volume, una parte rilevante delle imprese di Todaro. Ovvero quelle relative alla missione atlantica del sommergibile Cappellini dell'ottobre 1940.

Passato lo stretto di Gibilterra (un inferno di mine e cacciatorpediniere britanniche) Todaro e i suoi uomini iniziarono ad operare dalla base oceanica Betasom di Bordeaux dalla quale i sommergibilisti italiani, sostenendo l'impegno tedesco durante la Battaglia dell'Atlantico, si impegnarono a bloccare le rotte marittime tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, dopo una lunga e snervante attesa in mare, il Cappellini finalmente intercetta un bersaglio. È un mercantile belga armato di cannone che viaggia a luci spente nella notte e che ha perso contatto con la sua scorta britannica. Todaro non ci pensa un attimo: porta la sua nave all'attacco delle 5mila tonellate del Kabalo, ne esce un duello d'artiglieria in cui Todaro fa serrare sotto il Capellini per entrare nella zona morta del cannone nemico. Non è questa la sede e non lo è un romanzo per discutere di quanto male funzionassero i siluri italiani, anche per tattica d'impiego. Sta di fatto che, anche se un sommergibile non è una cannoniera, Todaro vince. La nave in fiamme affonda. Ci sono uomini in mare, poi compare anche una lancia. E Todaro a questo punto fa quello che pochissimi in quella guerra crudele avevano l'umanità di fare. I naufraghi li soccorre. Trascinerà in superficie la loro scialuppa verso il porto sicuro di Santa Maria delle Azzorre. Una follia che rende il sommergibile vulnerabile ad ogni attacco. E quando le cime, un sottile cordone ombelicale di salvezza, si spezzano Todaro fa tornare indietro il battello e insiste. E quando la scialuppa non tiene più il mare, imbarca i naufraghi sul sommergibile riempiendolo oltre ogni limite, ficcandone alcuni nella torretta. E questo significa che di nuovo il sommergibile non può immergersi. Ma alla fine, con cocciuto coraggio, i naufraghi saranno portati in salvo. La scelta non piacque al comando tedesco (e nemmeno a quello italiano) e pare - non vi è certezza storica su questo - che Todaro abbia risposto alle rimostranze di Dönitz con un lapidario: «Noi siamo marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà, e noi queste cose le facciamo».

Nel romanzo tutto questo c'è. E c'è anche altro. La fatica e il rischio della vita claustrofobica dei sommergibilisti. La voglia di combattere di Todaro, un guerriero senza se e senza ma. L'orgoglio di essere marinai italiani. C'è anche l'eroismo di Danilo Stiepovich, l'altra medaglia d'oro del Cappellini, ucciso in combattimento. La sua morte viene anticipata alla battaglia con il mercantile belga anche se in realtà avvenne mesi dopo in uno scontro con gli inglesi (di nuovo lotta in superficie nello stile Todaro). Ma è comprensibile gli autori abbiano voluto, con la sua epicità, tenerla nella narrazione. Il senso di un romanzo non necessariamente è la precisione assoluta, semmai trasmettere il senso e la sensazione di vite al limite e così diverse dalle nostre. Talmente diverse che si fa quasi fatica a ricordarsi che lo stesso Todaro, il veterano col busto d'acciaio rimasto ferito durante un'esercitazione con l'idrovolante era, nel 1940, appena un trentenne. Poi la scrittura, il racconto è fatto in prima persona dai vari personaggi - gioca bene con i dialetti che ancora caratterizzavano il modo di parlarsi degli italiani e che rendevano l'interno delle nostre navi delle piccole Babele galleggianti. Non bastasse, nell'epilogo c'è una frasetta che ci si dovrebbe ricordare bene a romanzo finito: «Dei centoquarantacinque sommergibili impiegati durante la Seconda guerra mondiale dalla Regia Marina Militare, ne sopravviveranno soltanto trentasei. Tutti gli altri riposano sul fondo del mare coperti da croci di corallo».

Allora tutto bene? Si può dire tutto bene tranne all'inizio, la prefazione. Il problema non è nel modo in cui il romanzo si immerge nella storia ma nella spiegazione del perché si immerge. Attenzione, nulla da dire sulle motivazioni personali degli autori che si sono avvicinati alla vicenda di Todaro quando è stata nominata dall'Ammiraglio Pettorino, allora comandante della guardia costiera, relativamente alla difficile gestione dei migranti abbandonati dagli scafisti nel mare libico. Ma questa vicenda complessa risalente a più di ottanta anni fa, e che ora diventa romanzo e film, non ha senso presentarla come apologo morale: «Gli Italiani (quelli che vanno per mare, ma soprattutto quelli che non ci vanno, che prendono il sole sul bagnasciuga, e giocano a racchettoni, e partecipano alle feste in spiaggia, e considerano giusto, perfino patriottico, lasciar morire affogata la gente che fugge dalla povertà, dalla persecuzione e dalla guerra) sappiano di chi sono figli. Anzi, nipoti». Perché allora se si fa così si fa torto alla Storia e al lettore, allora ci vuole il saggio, e ogni imprecisione da romanzo diventa un modo di tirare per la giacca con le emozioni. I romanzi non andrebbero mai spiegati e invece in Italia..

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