Quatton quattoni, Tony Pappano sta arrivando alla gran fama di grande direttore d'orchestra. Mentre scrivo, forse c'è già arrivato, tanto corre il suo nome. Per adesso, però, la sua posizione è del genere che quando si fanno i grandi nomi dei sovrani del podio, a un certo punto qualcuno dice: «C'è anche Pappano», e gli altri ne convengono. D'altra parte non ha mai fatto nulla per promuoversi alla maniera delle star: quando è arrivato a dirigere l'Orchestra di Santa Cecilia, come direttore stabile, incarico che sta tenendo con grande prestigio, si è detto tanto felice che qualcuno gli ha fatto notare che però non si trattava dei favolosi Wiener Philharmoniker. «Ma neanch'io sono Karajan», ha risposto lui tranquillo.
Lo racconta, insieme a molti altri episodi, Pietro Acquafredda, esperto musicale e collaboratore del nostro giornale, in un libretto utile e accattivante (Tony Pappano Direttore d'orchestra, Skira editore), in cui la parola è lasciata soprattutto al protagonista. Che è un caso assolutamente anomalo e benedetto. Figlio di un italiano cuoco d'ospedale che insegnava canto, dopo rivelazioni da bambino prodigio a Londra, va in America e suona l'organo in chiesa e il pianoforte in un ristorante, non frequenta il conservatorio, diventa assistente di direttori e maestro sostato in teatro, non prende alcun diploma, ma comincia la carriera come la cosa più naturale del mondo. Adora il canto e si fa in qualche modo complice dei cantanti, perché conosce il loro fraseggio e la loro psicologia; sa accettare i musicisti con cui lavora per quello che sono.
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