Il tormentone della povertà

Il tormentone della povertà

Torna la nenia della povertà, tornano i dati Istat da piegare all’esigenza politica più bassa: dipingere un Paese disperato da addebitare alla gestione governativa precedente, inventarsi dunque «un altro disastro» come ha fatto l’Unità sulla prima pagina di ieri. L’Istat in realtà ha detto che il dato sulla povertà rimane stabile, e che negli sfavillanti anni Ottanta, per capirci, si stava molto peggio: i poveri, oggi, sarebbero quel milione e mezzo di persone che guadagnano meno di 800 euro il mese, il vecchio milione e sei, quanto di più lontano possibile ossia dalle immagini proiettate dai Ballarò e compagnia che per anni hanno parlato di «famiglie che comprano a rate anche il latte» (22 febbraio 2005) o «bambine lasciate morire di stenti» (sempre Ballarò) senza contare i «due milioni di bambini poveri» inventati dall’Eurispes del novembre 2004, dati poi rivelatisi ridicoli.
Ma un censimento dei poveristi porterebbe via mezzo giornale, andrebbe riascoltata la marcia funebre cominciata nell’autunno 2003 con una lunga inchiesta del Corriere della Sera dedicata al tramonto del ceto medio, andrebbe riletto il libro mastro dei narratori della «sindrome della quarta settimana», quando cioè ti spiegavano che aziende e supermercati attorno al 20 del mese accusavano flessioni delle vendite perché la gente non aveva più soldi, il periodo in cui l’Ulivo commissionò alla Pan advertising quello che rimarrà il manifesto più menagramo della storia politica italiana: «Arrivi a fine mese?». Ma incalzava la campagna elettorale e la Cgil, nell’autunno 2005, giunse a scrivere sul proprio notiziario che «I pensionati non arrivano alla quarta settimana, e molti oramai nemmeno alla terza», con l’Eurispes ancora a spiegare che il Paese era abitato da sette milioni e 588mila poveri più altri otto milioni che rischiavano di diventarlo: un bacino di quindici milioni di disperati. Non era vero, non era assolutamente vero, e per saperlo bastava guardare gli stessi dati Istat che davano la povertà relativa in costante regressione, o nondimeno leggere quanto scrivevano professori ed economisti pure acclamati dalla sinistra (come Tito Boeri, ospite a Ballarò) o come Andrea Brandolini del centro studi della Banca d’Italia: «Vi sono due fonti statistiche principali sui bilanci familiari: l'indagine dell'Istat sui consumi e quella della Banca d'Italia sui redditi e sulla ricchezza. In entrambe le indagini le misure aggregate di disuguaglianza e povertà non indicano alcuna tendenza al peggioramento... Anche l'analisi dei dati dell'indagine della Banca d'Italia sui bilanci familiari non segnala un aumento dell'incidenza della povertà, né un peggioramento della disuguaglianza dei redditi».
Ma nulla poteva impedire che Luca di Montezemolo nel dicembre 2004 tuonasse contro «la fase più critica dal dopoguerra», con settimanali anglosassoni come L’Economist a scrivere che «Molti italiani stanno riducendo le proprie vacanze annuali o vi stanno addirittura rinunciando. Altri stanno rinviando l'acquisto di una nuova auto o di un completo. I supermercati riferiscono che gli incassi di questi tempi crollano intorno alla quarta settimana del mese». Il che era semplicemente falso, perché cresceva il numero di italiani che andava in vacanza e persino l’acquisto di auto soprattutto di grande cilindrata, ma soprattutto c’era l’Istat (organismo, ricordiamo, accreditato dal Fondo Monetario Internazionale) secondo il quale testualmente «La povertà relativa in Italia non aumenta». Non c’era analisi sociologica seria che nella società italiana non notasse semmai una divaricazione, da una parte un ceto medio declassato e uno che invece stava meglio, impiegati e piccoli commercianti e professori e ricercatori che guadagnavano relativamente poco e dall’altra immobiliaristi e grossisti e consulenti che incameravano soldi.
È l’Italia che, nel 2002, vedeva la Jacuzzi vendere ben 17mila vasche idromassaggio, mentre nel 2003 l’acquisto di televisori al plasma da 8.000 euro si quadruplicava e cresceva parimenti la vendita di grosse cilindrate, ciò mentre le località turistiche più costose erano sempre più care e strapiene. L’Istat, nel suo rapporto su «La povertà relativa in Italia nel 2004», spiegava che la quota che i ristoranti occupano nelle spese delle famiglie, nel 1970, era al 5 per cento, mentre nel 2004 la ritroviamo al 7,5 per cento. Lo scorso Natale, da molti descritto come recessivo, la decrescita degli acquisti è stata del 3 per cento ma vista nel dettaglio riguarda un 10 per cento per l’abbigliamento (attesa dei saldi) mentre aumentava la vendita non di pane e latte: ma di libri, dischi e soprattutto giocattoli. Nel periodo di maggior offensiva del poverismo, l’acquisto di caviale è calato dell’1 per cento, capirai, ma nessuno sui giornali evidenziò che le spese per il pranzo di Natale erano aumentate del 4 per cento. Impoverimento? L’aumento medio del reddito familiare, in Italia, è del 2,5 per cento mentre quello dei depositi bancari è cresciuto del 35 per cento.
Nel 2006 gli italiani (dati Eurisko) hanno risparmiato di più che in qualsiasi altro Paese d’Europa, e attenzione, il rialzo del risparmio è comune a tutte le fasce di reddito ma risulta persino più alta per i redditi medio-bassi. La gente mette i soldi in banca, cioè, ma secondo la vulgata non avrebbe i soldi per comprare il latte alla quarta settimana. Si dimentica che l’indice della ricchezza e della povertà degli italiani è dato dalla somma dei patrimoni, delle case, dei titoli e delle rendite (tipo le pensioni) che le famiglie possiedono, e sono anche questi redditi a misurare il tenore di vita di una nazione, non la sua produzione annua e cioè il famoso Pil. E oggi, dati alla mano, le rendite che entrano in una famiglia media superano i salari del 15 per cento. Il che significa non solo che l’Italia non è povera, ma che è decisamente ricca. Pochi dati Istat: la ricchezza media, nel 2000, era di 274.000 euro per famiglia; nel 2004 è diventata di 321.000. E se la ricchezza media tende a insospettire, ecco dunque la ricchezza della famiglia mediana, quella che divide esattamente a metà le famiglie: nel 2000 era circa doppia di quella statunitense (148.000 dollari contro 71.000 dollari) senza contare che la proporzione tra ricchezza e reddito disponibile di ciascuna famiglia italiana si fa superiore persino a quella degli Stati Uniti.
Se c’è una mistificazione di Stato per impedire che gli italiani si specchino nella loro povertà, dovrebbe farne parte anche l’economista Roberto Perotti, già professore della Columbia University e ora alla Bocconi di Milano. Su Il Sole 24 Ore del 30 marzo scorso l’ha messa così: «La povertà è un problema reale e drammatico, ma per iniziare bisogna sgombrare il campo da quattro miti che circolano insistentemente in questi tempi. Il ceto medio si è impoverito? I dati ci dicono che il suo reddito reale (cioè, al netto dell'inflazione) è aumentato negli ultimi anni. La povertà è salita negli ultimi anni? La povertà relativa, cioè la percentuale di famiglie che hanno un reddito inferiore a quello medio nazionale, è aumentata nella recessione del 1992-93 e da allora è rimasta stabile.

Le retribuzioni dei lavoratori sono diminuite? Negli ultimi dieci anni la retribuzione media dei lavoratori dipendenti è cresciuta in termini reali; l'aumento è stato ben superiore a quello della produttività del lavoro, il che spiega perché le imprese italiane abbiano perso competitività». Ma è inutile spiegarlo ai poveristi: sono cose che sanno già.

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