Tornano i Prodigy L’elettro-punk come rito liberatorio

La band inglese questa sera al Mazdapalace

Antonio Lodetti

Tutto nasce nel 1990 da un «rave party»: bombardamento di suoni (rumori) techno-elettronici, danze epilettiche, alcool e pasticche a volontà. A quella festa il tastierista di belle speranze Liam Howlett incontra il dj (già famoso nei circuiti alternativi) Keith Flint. Flint, un po’ ermafrodito un po’ punk, non vede l’ora di abbandonare la consolle e di salire su di un palcoscenico con una vera band. Tra lui e Howlett è amore (artistico) a prima vista e, con la complicità dell’amico ballerino Leeroy Thornhill forma un gruppo, The Prodigy, campioni nel mescolare sonorità dance, punk ed elettroniche. Quei Prodigy che a quindici anni dal debutto saranno stasera al Mazdapalace per celebrare il loro rito pagano.
«Aiutiamo i giovani a fuggire dall’incubo della realtà, dall’aberrante normalità; con noi imparano a divertirsi sul serio», dice Flint. E quindi, sfidando il tempo, una serata a tutto ritmo, con un pubblico trasversale che passa dal discotecaro incallito che va pazzo per i suoni dance agli ascoltatori della dance più sofisticata ed estrema, con drappelli di appassionati di punk e di metal. Difficile definire la musica dei Prodigy; techno rock, (anche se non ci sono soltanto loop elettronici), elettro punk? Non importa, ogni definizione viene superata dall’energia e dalla carica dissacrante di brani come Smack My Bitch Up, Firestarter e Breathe (assi pigliatutto a metà anni Novanta nell hit parade mondiali) o ancora Voodoo People, Jericho, Spitfire, Shootdown (dell’anno scorso) in cui fanno capolino anche gli Oasis (ovvero i fratelli Gallagher).
Sono tornati per fare sul serio dopo essere stati fuori dal giro che conta per quasi sette anni, dai tempi di The Fat of the Land, che aveva spalancato loro (ancora una volta) le porte dei piani alti delle classifiche angloamericane. Poi il limbo, nel 1999 era uscito un disco - non troppo fortunato - con i loro successi debitamente remixati, e ancora un paio di singoli passati più o meno inosservati. Ma la loro voglia di trasgredire covava sotto la cenere di una musica ribollente, non innovativa come negli anni Novanta, ma adatta alla frenesia e ai moti liberatori dei giovani d’oggi. Musica non musica che tritura funky, jazz, hip hop, break dance nel calderone dell’elettronica. Lo sbocco naturale, l’anno scorso, è Always Outnumbered Never Outgunned e, da pochi mesi, l’antologia Their Law, ovvero la loro legge. La legge di un suono ribelle e indipendente nel prendere le distanze dalla tradizione rock per crearne una nuova, autoctona. Tanto da essere seguiti ed imitati da band come i Chemical Brothers, e da influenzare lo stesso nuovo rock, che spesso incrocia le chitarre con i marchingegni e le tastiere elettroniche.

La loro apparizione, la scorsa estate al Flippaut Festival di Bologna davanti a 15mila persone, ha dimostrato l’affetto dei fan italiani che attendono il loro concerto come un rito liberatorio. Sul palco con Flint e Howelett Maxim alla voce, Jim Davies alla chitarra, Kieron Pepper alla batteria. Sconsigliato agli appasionati di rock duro e puro.

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