Tornare al voto per la rinascita della Calabria

Pietro Mancini

I parlamentari dell'Unione che, obbedendo agli ordini del vertice regionale della Quercia, scopertosi improvvisamente garantista, venerdì 18 agosto, sono piombati nel carcere di Cosenza per esprimere la loro solidarietà a Franco Pacenza, capogruppo dei Ds alla Regione Calabria, arrestato per voto di scambio e tentata concussione, non possono meritare il plauso e l'approvazione, per il loro atto, dai cittadini, calabresi e non, onesti e corretti, giustamente sensibili, oggi più che mai, alla «questione morale».
La presunzione di non colpevolezza, ovviamente, vale per Pacenza e i suoi coimputati. Ma non spetta ai parlamentari esprimersi e sindacare sui procedimenti giudiziari in corso. Questa facoltà era, ed è tuttora, concessa ai governanti dei regimi autoritari, come Cuba di Fidel Castro, di cui, forse, qualcuno dei parlamentari calabresi è ancora, anacronisticamente, nostalgico, al pari di Fausto Bertinotti, comunista non pentito, come Walter Veltroni. E i rappresentanti del partito di Fassino, sempre pronti a difendere qualsiasi decisione delle toghe adottata a carico dei loro avversari politici, da Silvio Berlusconi in giù, non possono presentarsi, oggi, come le vestali del garantismo, solo in quanto stavolta è stato colpito un proprio dirigente nella delicata inchiesta sulla discussa gestione regionale dei fondi comunitari.
Il dottor Giuseppe Greco, giudice del tribunale di Cosenza, che ha firmato gli ordini di custodia cautelare, deve continuare a lavorare serenamente, senza subire pressioni da parte dei rappresentanti della sinora tutt'altro che irreprensibile classe politica calabrese. La quale, sempre vanesia e presenzialista, ma silenziosa sui drammatici problemi della regione, riesce, evidentemente - come ha dimostrato la scomposta reazione alle manette decise per il diessino Pacenza e alle proteste del ministro Di Pietro per la visita dei deputati e senatori prodiani al detenuto- a indignarsi, solo quando la magistratura dimostra di voler procedere sulla impervia ma giusta strada dei doverosi accertamenti sulla trasparenza e sulla correttezza degli atti politici e dei procedimenti amministrativi.
I recenti arresti seguono le polemiche esplose dopo gli inquietanti sviluppi dell’inchiesta sul delitto del vicepresidente del Consiglio regionale, Franco Fortugno, con le gravi accuse del governatore Agazio Loiero, ex Margherita, ai capi nazionali Dl e a Mimmo Crea, subentrato in Consiglio al medico di Locri, trucidato nell'ottobre del 2005. E dovrebbero spingere i settori più responsabili dei partiti e l'opinione pubblica a chiedersi se vi siano le condizioni per tirare a campare con una consiliatura improduttiva, squassata da sospette collusioni con la 'ndrangheta, cambi di casacca, «concorsoni» regionali ideati per favorire i portaborse dei politici e trasversalismi indecenti, oppure se sia più opportuno e più saggio restituire la parola agli elettori.
Certo, lo scioglimento del Consiglio regionale sarebbe di gran lunga preferibile ai continui rimpasti di Giunta, alla spartizione delle poltrone del sottogoverno e alle lunghe e inconcludenti verifiche tra i partiti della maggioranza.

Che commetterebbero un gravissimo errore a perseverare nelle solidarietà di casta e nelle intese sotterranee tra i capi dei partiti, escludendo dalle scelte e dalle decisioni l'opinione pubblica, che appare sempre più disorientata e sconcertata, e gli elettori calabresi.

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