Eccoci finalmente di nascosto dentro la sala dove Toscanini prova. Lui non sa che ci siamo anche noi, e parla solo per i suoi professori dorchestra. Li ama, e li strozzerebbe perché non riescono a dare tutto quello che vorrebbe; li accende e galvanizza e poi li insulta ferocemente perché sono al di sotto della sua immaginazione.
Non abbiamo diritto a scandalizzarci, come quando leggiamo le sue lettere e ci sorprendono certe rudi concretezze. Nessuna delle donne a cui scrive dubita che al fondo duna sensualità scatenata ci sia la forza passionale dellamore per lei. Nessuno dei professori dorchestra o dei cantanti teme desser strozzato e nemmeno di venir disistimato appena riuscirà a rispondere degnamente ai comandi del Maestro, perché in fondo e in principio cè lamore assoluto per la musica. La collana di insulti è pittoresca, inflessibile, sonora. Cadono come saette i «vergogna», i «non capite un cavolo», i «siete cattivi suonatori», «orrore!», «porcheria», «grattate lo strumento». È una specie di partitura parlata, incalzanti crescendo e secche legnate concettuali. Un gergo, competitivo, stimolante: altri tempi, altre esagerazioni; e altra capacità in chi subiva di sentire nei modi primitivi il segno della grandezza.
Arturo Toscanini in America parla soprattutto italiano ai musicisti; già, esiste una bella presenza europea in orchestra e poi il lessico musicale italiano è familiare a chi legge spartiti e partiture, in cui è sempre adottato e a chi conosce lopera italiana, dominante.
In questo disco, i cantanti non ci sono. Fa tutto Toscanini. Canta, come può in tarda età, saltando quando serve unottava sotto, passando dalla melodia alla declamazione o alla parola risucchiata e come allusa. Ma con chiarezza impressionante, con nitore potente. La parola si staglia. È esattamente quello che Verdi chiamava «la parola scenica».
Toscanini è Alfredo ed è Violetta, è Riccardo che accenna piano «Sì, rivederti Amelia!» lasciandosi travolgere dallorchestra, Oscar il paggio che sussurra «Saper vorreste...», ed è lui, Toscanini, che interrompe la mazurchetta che accompagna gli ultimi minuti del Ballo in Maschera con un urlo furibondo perché qualcuno mangia i sedicesimi ed il ritmo non brilla più. A volte la parola non è quella dellopera, ma lo sembra. Ascoltate nella Traviata come vien fuori, inevitabile, stupenda, per descrivere lintenzione, la parola «fulmine».
Ma poi cercate anche le registrazioni delle esecuzioni: dove tutto il percorso accidentato si libera meravigliosamente.
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