Il tour (poco Grand...) di Welles in Italia

Alberto Anile rievoca il soggiorno del regista fra il '47 e il '53: un fallimento, a parte «Otello»

Il tour (poco Grand...) di Welles in Italia

Quando l'americano Orson Welles, una sera di novembre, atterrò all'aeroporto romano di Ciampino, su un bimotore Consul che da Londra aveva accumulato sei ore di ritardo, aveva trentadue anni, era divenuto famoso in patria che ne aveva nemmeno venticinque, restava per gli italiani un oggetto misterioso. Si sapeva che, grazie a Citizen Kane, ovvero Quarto potere, era considerato un genio del cinema, ma in Italia il film non l'aveva ancora visto nessuno e quindi non era chiaro il perché di quella nomea. In compenso, tutti sapevano chi fosse l'«atomica» Rita Hayworth, se non altro per averla vista in foto, e l'essere la moglie di Orson dava all'«oggetto misterioso» una luce particolarmente seducente.

Non era ben chiaro, inoltre, il motivo di quel viaggio. Certo, ufficialmente Welles era arrivato in Italia per girare un film come attore protagonista, ma per il gossip giornalistico questo non era motivo sufficiente: negli Stati Uniti Welles aveva fama di «sovversivo», ossia di comunista, una fama che la commissione McCarty, proprio allora insediatasi, aveva sapientemente rinfocolato. Aveva anche fama di essere un regista che mandava a picco i produttori, il che non era vero, e casomai era vero il contrario, visto che era pieno di debiti e con il fisco che gli alitava sul collo...

Per farla breve, in quell'Italia dell'autunno 1947, dove il comunismo era una cosa seria, il capitalismo era ruspante e il cattolicesimo vigilava tanto sulla politica quanto sulla morale pubblica, c'erano tutte le condizioni perché l'«oggetto misterioso» potesse interessare quel tanto che bastava prima di finire nel dimenticatoio, ma del «genio», vale a dire del regista, la sua arte, il suo talento, la sua creatività, non importasse niente a nessuno. Il tocco finale a questa commedia degli equivoci, fu il personaggio che Welles era stato chiamato a interpretare e che dava del resto il titolo al film: Cagliostro! Amanti delle semplificazioni, gli italiani, intesi come cinematografari e intellettuali, rotocalchi più o meno rosa e umanità più o meno varia, decisero che Welles era quella cosa lì. Non capirono il genio e gli preferirono il ciarlatano. Pochi anni dopo, quando Welles se ne andò dall'Italia, scontento con tutti, avendo litigato con tutti, e però con una moglie italiana, Ennio Flaiano ne riassumerà la parabola nel suo Un marziano a Roma. Nonostante la sua intelligenza, anche Flaiano aveva preferito la via più facile, la dissacrazione invece che la comprensione. Come una nemesi wellesiana, portato in teatro Un marziano a Roma fu un fiasco clamoroso: «L'insuccesso mi ha dato alla testa» commentò il suo autore. Ben gli sta avrebbe potuto commentare il marziano Welles...

Orson Welles in Italia (La nave di Teseo, pagg. 556, euro 27), è il bel libro che Alberto Anile dedica a questo amore non corrisposto e che durò un pugno di anni, da quel 1947 al 1953. In questo arco di tempo, il regista americano accarezzò mille progetti cinematografici, riuscì a portarne a termine, in maniera rocambolesca, soltanto uno, comunque un capolavoro, Otello, assaporò un ostracismo più o meno mascherato: promesse rimangiate, denigrazioni gratuite, sottovalutazioni spesso becere. Anile le racconta in maniera divertita e insieme partecipe, con l'occhio esperto di chi per mestiere è il Conservatore della Cineteca nazionale.

Nell'impossibilità di dar conto delle tantissime storie, memorie e rievocazioni presenti nel libro, ci accontenteremo di focalizzarne due, emblematiche e di cui è rimasta anche un'immagine fotografica.

La prima, e più conosciuta, è uno scatto del 1948 di Irving Penn intitolato Group at Caffè Greco in Rome. Nello storico locale di via del Corso c'è «un gruppo irripetibile d'artisti»: gli scrittori Flaiano, Brancati, Palazzeschi, Levi, gli scultori Mirko e Fazzini, i poeti Penna e De Libero, i pittori Afro, Vespignani e Tamburi... In mezzo a loro, unica donna, c'è l'attrice Lea Padovani, e al suo fianco proprio Orson Welles, all'epoca suo appassionato innamorato. Vista così, sembra la prova provata di come la cultura romana, e quindi italiana, avesse adottato l'esuberante genio d'oltreoceano. Nella realtà, è una messinscena... Penn aveva bisogno di un volto femminile: la scelta cadde sulla Padovani, giovane attrice di teatro e di cinema allora in ascesa, e lei si tirò dietro Orson, nome del resto ben noto al fotografo. Come scrisse De Libero nel suo diario: «Nessuno di noi sapeva che egli doveva figurare in mezzo a noi e così abbiamo fatto da squisito contorno a quella bistecca d'asino che è il signor Welles, genio a forza di dirlo e ripeterlo a sé stesso».

Come riassume benissimo Anile, «Welles cercava una fidanzata italiana, amicizie nel fertile ambiente artistico romano, nuove esperienze cinematografiche nella città di De Sica e Rossellini, e aveva invece trovato una donna che lo avrebbe abbandonato, un gruppo di intellettuali indifferenti se non ostili, produttori con i quai avrebbe intrattenuto rapporti ambigui e conflittuali. La foto di Penn è un curioso falso culturale, che fa solo fantasticare su come avrebbe potuto essere la storia italiana di Welles se le cose fossero andate diversamente».

La seconda immagine, dimenticata nel tempo, ma all'epoca ben conosciuta, vede Orson Welles a tavola con Palmiro Togliatti. È del dicembre 1947, il quarto ministero De Gasperi, monocolore, ha lasciato fuori socialisti e comunisti e ci si prepara alle elezioni politiche dell'aprile successivo, con i due partiti di sinistra insieme nel Fronte popolare. A Luigi Barzini jr, che gli fa da segretario e da interprete, Welles chiede la possibilità di incontrare gli uomini politici più importanti: si sente già cittadino di Roma, «Roma mi adotta e io adotto lei» e vuole saperne di più sul Paese che si illude di aver scelto. Barzini è un liberale, appena licenziato in tronco dal Corriere della Sera perché la commissione operaia interna lo ritiene un pericoloso monarchico in un'Italia riscopertasi repubblicana. «Il Partito liberale - commenterà Togliatti - vuole andare così a destra, che lei stesso si è trovato a sinistra. Barzini a sinistra, è tutto dire!».

Per arrivare a Togliatti, Barzini chiede aiuto al redattore parlamentare dell'Unità, Emmanuele Rocco, che conosce bene. La cena ha luogo da Romualdo, in piazza della Torretta, dietro Montecitorio, una trattoria alla buona, che fa pizze e filetti fritti di baccalà, il che dà un'idea di cosa fossero Roma, la politica e i leader di partito di allora. Nella serata, fra l'altro, Togliatti racconterà a Welles che qualche giorno prima, a una sfilata di partigiani, una bambina di quattro anni, figlia di «una buona compagna», tutta eccitata lo avesse salutato facendo il saluto romano e lui aveva dovuto consolare la madre che non la finiva più di vergognarsi, e anche questo racconta molto della Roma, della politica e dei leader di partito di allora.

Togliatti riassunse la serata dicendo a Emmanuele Rocco: «Questo Welles è l'americano più intelligente che io abbia conosciuto». Con il senno di poi, e alla luce delle stroncature biliose, in nome del neorealismo, del realismo, del realismo socialista, dell'impegno e della lotta di classe, che la critica cinematografica di sinistra gli rovesciò addosso, Welles dovette rendersi conto che Togliatti era l'unico comunista intelligente che avesse conosciuto...

Per onestà di cronaca, va detto che Welles non trovò nemmeno troppi liberali intelligenti, laici o cattolici che fossero, nel suo soggiorno italiano: la causticità di Flaiano così come il sarcasmo di De Libero ne sono una conferma.

Lì c'era di mezzo il crocianesimo, l'idea che il barocco fosse una bestemmia contro l'arte intesa come giusta misura estetica, il fastidio per ogni innovazione stilistica, per ogni provocazione che suonasse sulfurea, il provincialismo di chi pensava che gli americani dovessero limitarsi a fare i cowboys o a fare i soldi e lasciare agli europei le riflessioni sull'arte. Dopotutto eravamo noi ad aver fatto il Rinascimento. Peccato che ci fossimo dimenticati come.

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