Tracy Chapman, tra folk e politica fa rivivere sonorità anni Sessanta

Stasera allo Smeraldo la cantante che si ispira a Dylan e Young, presenta il nuovo album e ripropone classici come «Dreaming On a World» e «Why»

Antonio Lodetti

Suona la chitarra acustica con accordi secchi, ipnotici, nervosi e canta con voce scura, fiera, mascolina. È una folksinger ma, quando il movimento folk americano era sulla cresta dell’onda (nei primi anni Sessanta) lei era appena nata (è venuta alla luce nel 1964 a Cleveland, Ohio). Nera, passionale, arrabbiata, d’aspetto semplice e quasi dimesso, Tracy Chapman è esplosa nel 1988 con l’album di debutto, che portava semplicemente il suo nome. Con brani carichi di secca tensione come il suo superclassico Talkin’ bout a revolution (un talkin blues che annuncia la ribellione dei poveri)e la ballata di strada Fast car vende dieci milioni di dischi e si mette in tasca tre Grammy.
Diciassette anni dopo la Chapman non è più popolare come un tempo, ma è una presenza rassicurante nel mondo di un folk rock che gioca sull’impegno, sulla modernità che guarda alla tradizione. «Mi sono sempre ispirata a Bob Dylan, Joni Mitchell e Neil Young», ricorda Tracy che stasera tiene l’unico concerto del suo tour italiano al Teatro Smeraldo presentando il nuovo album, (il giro europeo si conclude con tre show francesi, di cui l’ultimo a Parigi, che dovrebbe avere come ospite il duo Amadou & Marian). La sua scelta d’ispirazione folk non è fatta per abbagliare il grande pubblico, assetato di roboanti fragori rock, ma la Chapman ha altre frecce al suo arco; lei canta emozioni comuni, gioia e dolore, ottimismo e tristezza, paura e speranza, per poi far esplodere il canto ricco di vibrato in battaglieri inni di protesta, o denuncia sociale. «Il mio stile nasce dalle mie esigenze espressive, non dalla voglia di compiacere il gusto del pubblico. Per questo sono ancor più felice di essere arrivata al successo e non m’importa di mantenerlo a tutti i costi». E lei non cambia strada (a parte qualche incursione verso sonorità più moderne e tentazioni etniche come nell’album Matters of heart cui partecipano Manu Katché e Mino Cinelu) proponendo, in Where you live, un pugno di ballate acustiche e intense (qualcuno dice troppo uniformi)dal sapore d’antan. Brani dall’incedere lento come Be and be not afraid, Love’s proof, America, Change con ospite il bassista dei Red Hot Chili Peppers Flea che si ricollegano al precedente disco Let it rain e a pagine introspettive del passato come New beginning o Crossroads. «Oggi più che mai, in tempi in cui soffiano venti di guerra, bisogna che le canzoni uniscano la gente con il collante del calore umano». Del resto l’impegno le ha sempre portato fortuna; due mesi dopo il debutto discografico è salita a Londra sul palco dello stadio di Wembley, celebrano con tante altre star il settantesimo compleanno di Nelson Mandela (risultato, come racconta la sua biografia ufficiale, 12mila copie in più dell’album vendute in due giorni) e poi i concerti per Amnesty international con Springsteen, Sting eccetera. Lei ci crede, voce di cartavetrata capace di mille sfumature emotive, una voce che sembra sbucare dagli anni Sessanta nel credere in ciò che dice, nel lasciare la musica in sottofondo, con accompagnamenti spartani e felpati al servizio delle parole.


Così stasera, davanti al suo pubblico, si racconterà col cuore in mano, come sempre, senza falsi divismi, ripassando anche classici come Baby can i hold you, Dreaming on a world, Why (rabbiosa e ingenua con quelle domande disarmanti e ingenue come «perché tanti bambini muoiono di fame?», «perché chiamano i missili armi per mantenere la pace?». Uno show che sembra fuori dal tempo ed invece è profondamente radicato nella nostra realtà.

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