La tragedia diventata un simbolo Ma il vero omaggio alle vittime è celebrare un processo normale

Una volta, solo la messa riusciva a essere più solenne e austera di un processo penale. Adesso, viene spontaneo chiedersi che cosa diamine stia succedendo dentro le nostre aule di giustizia. In teoria, il solo nome dovrebbe bastare a chiarire quasi tutto: in quelle aule si esercita, si applica, si cerca giustizia. Cioè una cosa terribilmente seria e difficile, che già i nostri limiti umani rendono inevitabilmente fragile e approssimativa. Comunque vada, si finisce sempre per infliggere sofferenza: a chi viene giudicato, ovviamente, ma anche a chi giudica, sotto forma di dubbi, ripensamenti, macerazioni, sensi di colpa. Ad aleggiare sopra tutto e tutti, il referente più importante dell'intera impalcatura: chi ha subito gli effetti del reato, la vittima.
Guardiamo a Torino: si può dire serenamente che dentro e attorno al processo Thyssen regni il clima austero da messa laica, così come imporrebbe l’alto rispetto della giustizia e del dramma giudicato? Serenamente e sinceramente, la risposta è no. Il clima che si respira in questo processo, anche in questo processo, come ormai purtroppo in tutti i più importanti processi italiani, leggi per esempio Cogne e Erba, è un clima distorto, avariato, perverso. Tre giudici popolari, chiamati a fare da garanzia e contrappeso in un dibattimento tanto importante, non trovano niente di inopportuno, tanto meno di illegittimo, nel parlare amabilmente con i giornali nei ritagli di tempo tra un’udienza e l’altra, molto prima di arrivare alla sentenza. Così, come si parla del match sulle gradinate dello stadio durante l’intervallo. O come al bar, nella pausa caffè, prima di tornare in ufficio e riprendere in mano il lavoro...
Per fortuna qualcuno o qualcosa ancora funziona, in questo sgangherato baraccone della legge, così che prontamente i tre ciarlieri risultano rimossi e sostituiti. E pazienza se comunque il polverone sollevato costa altro tempo perso e altri soldi, a una macchina che già non brilla per velocità, agilità e contenimento dei costi. Questo, in fondo, resta l’effetto meno preoccupante. A sovrastare l’episodio, in un modo molto più preoccupante, è la deriva circense cui siamo inesorabilmente diretti, senza la minima possibilità di fermarci in tempo. Sin dal suo inizio, la strage di Torino ha assunto i connotati di una grande rappresentazione nazionale, emblematica e metaforica, come un perfetto palcoscenico pronto a ospitare le incursioni dei più svariati e superflui attori. Puntualmente, ci sono saliti tutti: politici, super-periti, sindacalisti, registi, cantanti, rotocalchi piagnucolosi. Fiaccolate e cortei, magliette con i volti delle vittime, e tanti, tantissimi verdetti già enunciati, come se alla fine la giuria dovesse solo ratificare servilmente le pretese generali. Mai, per altre stragi sul lavoro, si era verificato qualcosa di simile: basta chiedere a pochi chilometri di distanza, a Fossano, dove l'esplosione del Molino Cordero, nel luglio 2007, falciò cinque vite, ma dove ancora oggi si chiedono il perché dell’odiosa disparità di clamore all’epoca del fatto e del successivo oblio calato sulla propria tragedia.
Tutto si potrà dire dello spaventoso rogo Thyssen, non che sia passato sotto silenzio, che l’abbiamo velocemente rimosso, che la giustizia non l’abbia considerato come merita. Allora: perché trasformare il processo in un happening nazional-popolare, dove la componente mondana e spettacolare, emotiva e coreografica, continua a soffiare sul collo della giustizia e a tirare per la toga i giudici, quasi che ormai certe faccende, da noi, si debbano risolvere sulla pubblica piazza o negli sbracati salotti televisivi?
Anche questa, più di altre cavillose diatribe, è materia da riforma della giustizia. Tra le tante cose da riformare c’è prima di tutto l’aria che tira attorno e dentro il processo, questo maledetto processo italiano dai tempi immani e disumani, dalle platee occhiute e pettegole in coda col biglietto come fuori dei multisala, dagli avvocati vanitosi a favore di telecamera e dai magistrati in continua crisi di astinenza mediatica. Come si può pensare di avvicinare, faticosamente e dolorosamente, la verità, se il processo non torna a essere il contraddittorio sobrio, rigoroso, essenziale della grande tradizione giudiziaria? Se non si ramazza fuori dall’aula tutto il ciarpame del nostro narcisismo contemporaneo, questa squallida schiavitù alla telecamera e al palcoscenico, questa pulsione irrefrenabile a cercare subito un microfono e un intervistatore anche nei momenti più tristi, più luttuosi, più agghiaccianti, siano processi per strage o dopo-terremoti o scene del delitto con cadaveri ancora caldi?
A Torino s'è appena cominciato. Ma già si sente un terribile bisogno di silenzio. Di pudore. Di rispetto. A titolo di promemoria: non siamo lì per fare teatro e concedere interviste, siamo lì solo per celebrare un buon processo.

Vediamo se ci riesce un po’ di decoro almeno davanti a sette morti che aspettano giustizia. Per i nostri pruriti più bassi abbiamo già le Isole dei famosi e i Grandi fratelli. Sarebbe utile riuscire ancora a cogliere qualche differenza.

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